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Ceuta-Marocco, una frontiera caldissima

di Zouhir Louassini. Rainews 24 (20 maggio 2021)
È l’epilogo della cronaca di una crisi annunciata: in meno di 24 ore più di 8000 migranti hanno attraversato i confini di Ceuta, l’enclave spagnola nel nord del Marocco che s’affaccia sullo Stretto di Gibilterra. L’ultimo, clamoroso episodio nei complessi rapporti diplomatici tra Marocco e Spagna, divenuti di nuovo critici nelle ultime settimane.
Una frontiera caldissima
Succede da molti anni: i migranti cercano regolarmente, spesso rischiando la vita, di entrare a Ceuta per stabilirvisi; oppure per cercare di raggiungere, da lì sulla costa, il continente europeo che è vicinissimo: appena 17 km di là dal mare. Le ultime 48 ore hanno tuttavia sorpreso le autorità spagnole per il numero degli ingressi.
8000 persone. Ben oltre la media annuale di quelli che cercano di arrivare alla “frontiera europea nel territorio africano”: così le autorità spagnole descrivono Ceuta e Melilla (l’altra città-enclave, 225 km a Est). Per i marocchini sono solo due città occupate dalla Spagna, strascico e testimonianza di una storia piena di conflitti tra le due sponde del Mediterraneo.
Sgarbo diplomatico
Per chi conosca la storia dei due Paesi non è difficile comprendere che il flusso migratorio procedente dal Marocco è, più che altro, una misura di ritorsione nei confronti della Spagna. È parte de un “dialogo continuo” tra Madrid e Rabat che cambia di forma ma mai di sostanza, fatto com’è di un’agenda ricca di spinose divergenze. Si ragiona, si fa diplomazia con i gesti, più o meno simbolici e rituali. Il primo gesto è stato l’annullamento di un viaggio di Stato che il primo ministro Pedro Sanchez avrebbe dovuto effettuare in Marocco. Era diventata una tradizione, ormai, che la prima destinazione estera dei presidenti del governo spagnoli fosse Rabat. Sanchez non ha potuto rispettarla per motivi ancora non chiariti.
La questione del Sahara Occidentale
Una spiegazione per questa crisi specifica c’è, e poggia sulle reciproche rigidità relative all’annosa questione del Sahara Occidentale. La presenza di Podemos nel governo di Madrid non è mai stata gradita dalle autorità marocchine, anche perché il Partito di Pablo Iglesias è un convinto difensore dell’autodeterminazione nel Sahara Occidentale, territorio amministrato dal Marocco fin dal 1975, dopo duri negoziati con il governo spagnolo di quell’epoca e che i marocchini considerano come parte integrante del loro territorio.
Il Marocco, da parte sua, ha tutto l’interesse a porre l’intera questione del Sahara Occidentale all’interno della lotta per la leadership regionale. Secondo Rabat, infatti, è l’Algeria che manovra il gruppo indipendentista del Fronte Polisario, usandolo per trovare uno sbocco verso l’Atlantico e per evitare di negoziare la questione delle frontiere che già nel 1963 provocò la cosiddetta “guerra delle sabbie”.
Bloccato il conflitto all’inizio degli anni ’90 dopo quindici anni di guerriglia, il problema è riemerso alla fine di novembre 2020, quando il trentennale “cessate il fuoco” concluso tra Rabat e il Fronte Polisario nel 1991, è stato rotto. Un mese dopo, Donald Trump ha riconosciuto la sovranità marocchina su tutto il territorio.
Da allora, il Marocco ha aumentato la pressione affinché la Spagna e la comunità internazionale seguano le orme di Washington. Ma gli Stati dell’Unione europea mantengono ferma la loro posizione: il conflitto deve essere risolto nell’ambito dell’ONU, sulla base di un referendum di autodeterminazione.
Il leader del Fronte Polisario ricoverato in Spagna
È così importante la questione del Sahara Occidentale per Rabat, che si poteva immaginare la reazione marocchina al recente ricovero di Brahim Ghali, leader del movimento indipendentista saharawi, in un ospedale spagnolo per i postumi del Covid-19. Molti media iberici rivelano che la decisione di lasciar entrare Ghali, anche se sotto falso nome e con un passaporto diplomatico algerino, ha suscitato un aspro dibattito nello stesso governo Sanchez.
I quotidiani El Mundo e ABC, per esempio, hanno affermato che il ministro degli interni Fernando Grande-Marlaska avrebbe “rifiutato di accogliere in un ospedale spagnolo il leader del Fronte Polisario” e aveva “messo in guardia circa le possibili conseguenze”. Citando fonti governative, i media aggiungono che “la decisione di ospitare il leader del Polisario è stata presa dalla ministra degli Affari esteri, Arancha González Laya, e approvata da Pedro Sanchez”.
Marlaska era consapevole che l’atto di accoglienza avrebbe riaperto lo scontro con Rabat e ha insistito: la presenza in Spagna del segretario generale del Fronte Polisario ha “irritato il Marocco con la conseguenza del massiccio ingresso di immigrati a Ceuta”.
Siamo, insomma, davanti a un’altra puntata di questa lunghissima tragicommedia delle parti, in cui ognuno usa le carte che ha in mano, anche la temutissima pressione migratoria. Rabat vuole ricordare al governo spagnolo che è un partner essenziale nella gestione dei flussi migratori, in particolare alle frontiere di Ceuta e Melilla. La Spagna sottolinea con fermezza la sua sovranità e il suo diritto di ospitare chi vuole. Il Marocco ha richiamato la sua ambasciatrice.
Si può solo aspettare la prossima mossa.
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È morto il Papa del dialogo, che ha costruito ponti tra l’Occidente cristiano e l’Islam

E oggi, mentre il mondo è ancora attraversato da guerre, odio e propaganda, quello che ci ha lasciato è una responsabilità: non lasciare che quei ponti crollino
In un’epoca lacerata da sospetti, paure e divisioni, Papa Francesco ha scelto una strada diversa: quella del dialogo vero. Non formale, non strategico. Un dialogo umano, coraggioso, profondo. E per chi, come me, è cresciuto nella cultura islamica, quel dialogo non è stato solo un gesto simbolico: è stato un segno di rispetto, di ascolto, di riconoscimento.
Papa Francesco ha parlato con noi, non solo di noi. E per questo, nel mondo musulmano, è stato profondamente rispettato. Stimato. Molti — credenti e non — hanno visto in lui non solo il capo della Chiesa cattolica, ma un uomo capace di farsi ponte. Di capire che non esiste vera pace se escludi l’altro. Di dire no alla paura, no alla propaganda, sì alla verità.
Quando l’immagine dell’Islam in Occidente era oscurata da pregiudizi e ridotta a caricatura di violenza, Papa Francesco ha rifiutato la logica dello “scontro di civiltà”. Ha parlato di fratellanza. Ha cercato l’incontro, anche quando farlo significava sfidare luoghi comuni e rischiare l’incomprensione. Non ha mai ceduto alla retorica della contrapposizione. Ha preferito le parole difficili della pace.
A Rabat, nel marzo 2019, davanti a migliaia di musulmani e al re Mohammed VI, Francesco ha detto qualcosa che ancora oggi mi porto dentro: «Il dialogo interreligioso è una condizione essenziale per la pace nel mondo». Parole semplici, ma vere. Quel giorno non ha parlato soltanto ai musulmani, ha parlato con tutta l’umanità. Ha voluto ricordare che il dialogo tra le fedi non è una scelta diplomatica, ma una necessità per costruire la pace, per riconoscere l’altro, per imparare a convivere senza paura. Ha mostrato che incontrarsi non significa rinunciare alla propria identità, ma renderla più forte attraverso il rispetto reciproco.
Pochi mesi prima, negli Emirati Arabi Uniti, aveva firmato con il Grande Imam di al-Azhar il “Documento sulla fratellanza umana”. Un testo che rifiuta la violenza e afferma che la fede – ogni fede – deve essere forza di riconciliazione, non di separazione. È stato un gesto che ha fatto storia.
Il viaggio in Iraq, paese martoriato da decenni di guerre e divisioni, è stato un altro atto di coraggio. L’incontro con il Grande Ayatollah Ali al-Sistani ha mostrato al mondo che anche le ferite più profonde si possono curare solo partendo dal rispetto. La presenza del Papa tra i musulmani sciiti è stata un segno potente di vicinanza e solidarietà.
Nel 2024 è andato in Indonesia, il Paese musulmano più popoloso del pianeta. Anche lì ha scelto di incontrare, ascoltare, dialogare. Alla Moschea Istiqlal, a Jakarta, ha parlato non solo come capo della Chiesa cattolica, ma come uomo consapevole che senza il contributo del mondo islamico non può esistere una pace vera.
Già nel 2014, in Turchia, aveva pregato nella Moschea Blu, a fianco dei leader musulmani. Era un gesto semplice, ma per molti inatteso. Un gesto che diceva: “Siamo diversi, ma non nemici. Possiamo pregare vicini, senza tradire la nostra fede”.
Papa Francesco ha fatto qualcosa che molti leader, religiosi e non, evitano: ha costruito ponti. Con pazienza, con umiltà, con tenacia. E quei ponti oggi sono la sua eredità più preziosa.
Per noi di cultura musulmana, il suo dialogo è stato un invito sincero a camminare insieme. Non per somigliarci, ma per capirci. Per rispettarci. Perché il dialogo autentico non cancella le differenze, le attraversa con dignità e coraggio.
Oggi che se ne va, sentiamo il peso di una voce che mancherà. Una voce limpida, libera, che ha saputo difendere la dignità di ogni essere umano. Papa Francesco non ha mai cercato scorciatoie: ha parlato a tutti, con tutti, soprattutto quando era difficile. Per questo la sua figura resterà viva, anche fuori dalla Chiesa. Anche tra noi.
E oggi, mentre il mondo è ancora attraversato da guerre, odio e propaganda, quello che ci ha lasciato è una responsabilità: non lasciare che quei ponti crollino.
Perché, in fondo, il dialogo è l’unica strada che resta quando tutto il resto ha fallito.
Rahmatullahi ‘alayh. Che la misericordia di Dio sia su di lui.
Rainews (21 aprile 2025)
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La laurea di İmamoğlu e la maschera caduta di Erdogan: che cosa sta succedendo in Turchia

L’arresto del sindaco di Istanbul con un cavillo burocratico non è solo un caso giudiziario. È uno spartiacque. Non sappiamo se tornerà libero, se riuscirà davvero a candidarsi, se vincerà. Ma il tentativo di cancellarlo dalla scena ha già fallito
In Turchia, anche una laurea può diventare un’arma politica. Non una laurea falsa, ma una vera, conseguita anni fa, che improvvisamente viene “annullata” dall’università. È quanto accaduto a Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul e figura di punta dell’opposizione: il giorno prima del suo arresto, l’Università di Istanbul ha deciso che il suo titolo di studio non era più valido. Tempismo perfetto, se si considera che una laurea è requisito obbligatorio per candidarsi alla presidenza della Repubblica.
Come dire: se non riusciamo a batterlo alle urne, possiamo sempre eliminarlo con un cavillo burocratico. Ma non è bastato. Il giorno successivo, İmamoğlu è stato arrestato con accuse di corruzione, riciclaggio e legami con il PKK, l’organizzazione curda classificata come terrorista dal governo. Il tutto a pochi giorni dalle elezioni municipali e in un momento in cui il suo nome circolava sempre più spesso come possibile candidato alle presidenziali del 2028. Per Erdoğan, İmamoğlu è un problema. Ed è risaputo: quando la democrazia inizia a fare troppa confusione, l’islam politico preferisce il silenzio delle aule giudiziarie.
Erdoğan ha costruito il suo potere proprio così: vestendo i panni del leader perseguitato, imprigionato per aver recitato versi religiosi in pubblico, per poi tornare trionfalmente alla guida di un partito “moderato” e compatibile con l’Occidente. L’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, è nato come forza riformista, promettendo una Turchia moderna, democratica, prospera. Nei primi anni ha mantenuto le promesse: boom economico, infrastrutture ovunque, consenso popolare alle stelle. Sembrava quasi che la democrazia islamica potesse esistere davvero.
Poi, lentamente ma inesorabilmente, la maschera è caduta. Ogni vittoria è diventata una scusa per concentrare più potere, ogni critica un tradimento. Dopo il tentato colpo di Stato del 2016, Erdoğan ha trovato il pretesto perfetto per trasformare la Repubblica in un sistema presidenziale iper-centralizzato, epurando giudici, giornalisti, insegnanti, militari, persino medici se necessario. Chiunque non giuri fedeltà viene sospettato di cospirazione. A quel punto, non serve più neanche perdere tempo con le elezioni: basta invalidare una laurea, fabbricare un’accusa, e il problema si risolve.
İmamoğlu però non è un oppositore qualunque. È il sindaco della città più importante del paese, la stessa da cui Erdoğan aveva iniziato la sua ascesa politica. E proprio a Istanbul ha subito una delle sue più clamorose sconfitte: le elezioni del 2019, vinte da İmamoğlu, furono annullate per “irregolarità”. Ma al secondo turno l’opposizione trionfò con un margine ancora più ampio. Un’umiliazione. Peggio ancora, İmamoğlu non è né estremista né incendiario. È moderato, concreto, popolare. Troppo per essere tollerato in un sistema che accetta l’opposizione solo se è folkloristica o innocua.
Il suo arresto arriva in un contesto in cui l’AKP sta perdendo terreno nelle grandi città. Istanbul, Ankara, Smirne, Bursa: lì il partito di governo non riesce più a parlare alla gente. Il modello economico che aveva sedotto milioni di cittadini si è sgonfiato, schiacciato da inflazione galoppante, disoccupazione e una lira in caduta libera. I giovani non hanno futuro, le famiglie non arrivano a fine mese, e la religione non basta più a riempire i frigoriferi.
Così, mentre il potere si irrigidisce, la società turca si muove. Non con una rivoluzione, ma con una lenta e ostinata resistenza. Sono i giovani, le donne, le nuove classi urbane a guidare questo cambiamento. Quelli che non si riconoscono più né nel nazionalismo esasperato, né nell’islam militante, né nella retorica del “noi contro il mondo”. Quelli che vogliono solo vivere in un paese normale, dove un sindaco non finisce in prigione per un diploma, e dove un presidente non decide chi può o non può candidarsi.
La repressione ha fatto il suo corso. Ma ha anche prodotto l’effetto opposto: ha reso visibile, tangibile, la paura del potere. Perché se davvero İmamoğlu fosse innocuo, non ci sarebbe bisogno di cancellarlo così. E invece lo si colpisce in anticipo, si chiude il gioco prima che cominci. Si grida alla legalità, mentre si calpestano le regole.
È il paradosso dell’islam politico: nato per rompere il monopolio dei militari e dare voce alla religione nella sfera pubblica, è diventato esso stesso un sistema chiuso, autoreferenziale, incapace di convivere con l’alternanza. Non appena la democrazia smette di essere utile, diventa una minaccia. E la si soffoca. Ma la democrazia, quella vera, è testarda. E in Turchia oggi si sta manifestando là dove fa più male al potere: nei quartieri, nelle piazze, nei volti di chi resiste.
L’arresto di İmamoğlu non è solo un caso giudiziario. È uno spartiacque. Non sappiamo se tornerà libero, se riuscirà davvero a candidarsi, se vincerà. Ma il tentativo di cancellarlo dalla scena ha già fallito. Perché oggi milioni di turchi, anche quelli che non lo votano, hanno capito una cosa: chi ha paura del voto non ha più legittimità. E chi ha bisogno di cancellare un diploma per fermare un avversario ha già perso.
Pubblicato su Rainews
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Dominique de Villepin: l’Europa tra sovranità e sottomissione
Dall’iconico discorso all’ONU nel 2003 contro la guerra in Iraq fino alla sua visione di un’Europa indipendente e protagonista del nuovo ordine globale, Dominique de Villepin continua a essere una delle voci più lucide e autorevoli del dibattito internazionale.
In questa intervista, l’ex primo ministro francese ci parla dei rischi della vassallizzazione dell’Europa, della necessità di una politica di sovranità industriale, tecnologica e culturale, e del ruolo che il nostro continente deve giocare in un mondo sempre più dominato dalla logica della potenza.
Una conversazione che attraversa la storia, la geopolitica e il futuro dell’Europa, tra sfide globali e il dovere di restare fedeli ai nostri valori.
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