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La laurea di İmamoğlu e la maschera caduta di Erdogan: che cosa sta succedendo in Turchia

L’arresto del sindaco di Istanbul con un cavillo burocratico non è solo un caso giudiziario. È uno spartiacque. Non sappiamo se tornerà libero, se riuscirà davvero a candidarsi, se vincerà. Ma il tentativo di cancellarlo dalla scena ha già fallito

In Turchia, anche una laurea può diventare un’arma politica. Non una laurea falsa, ma una vera, conseguita anni fa, che improvvisamente viene “annullata” dall’università. È quanto accaduto a Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul e figura di punta dell’opposizione: il giorno prima del suo arresto, l’Università di Istanbul ha deciso che il suo titolo di studio non era più valido. Tempismo perfetto, se si considera che una laurea è requisito obbligatorio per candidarsi alla presidenza della Repubblica.

Come dire: se non riusciamo a batterlo alle urne, possiamo sempre eliminarlo con un cavillo burocratico. Ma non è bastato. Il giorno successivo, İmamoğlu è stato arrestato con accuse di corruzione, riciclaggio e legami con il PKK, l’organizzazione curda classificata come terrorista dal governo. Il tutto a pochi giorni dalle elezioni municipali e in un momento in cui il suo nome circolava sempre più spesso come possibile candidato alle presidenziali del 2028. Per Erdoğan, İmamoğlu è un problema. Ed è risaputo: quando la democrazia inizia a fare troppa confusione, l’islam politico preferisce il silenzio delle aule giudiziarie.

Erdoğan ha costruito il suo potere proprio così: vestendo i panni del leader perseguitato, imprigionato per aver recitato versi religiosi in pubblico, per poi tornare trionfalmente alla guida di un partito “moderato” e compatibile con l’Occidente. L’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, è nato come forza riformista, promettendo una Turchia moderna, democratica, prospera. Nei primi anni ha mantenuto le promesse: boom economico, infrastrutture ovunque, consenso popolare alle stelle. Sembrava quasi che la democrazia islamica potesse esistere davvero.

Poi, lentamente ma inesorabilmente, la maschera è caduta. Ogni vittoria è diventata una scusa per concentrare più potere, ogni critica un tradimento. Dopo il tentato colpo di Stato del 2016, Erdoğan ha trovato il pretesto perfetto per trasformare la Repubblica in un sistema presidenziale iper-centralizzato, epurando giudici, giornalisti, insegnanti, militari, persino medici se necessario. Chiunque non giuri fedeltà viene sospettato di cospirazione. A quel punto, non serve più neanche perdere tempo con le elezioni: basta invalidare una laurea, fabbricare un’accusa, e il problema si risolve.

İmamoğlu però non è un oppositore qualunque. È il sindaco della città più importante del paese, la stessa da cui Erdoğan aveva iniziato la sua ascesa politica. E proprio a Istanbul ha subito una delle sue più clamorose sconfitte: le elezioni del 2019, vinte da İmamoğlu, furono annullate per “irregolarità”. Ma al secondo turno l’opposizione trionfò con un margine ancora più ampio. Un’umiliazione. Peggio ancora, İmamoğlu non è né estremista né incendiario. È moderato, concreto, popolare. Troppo per essere tollerato in un sistema che accetta l’opposizione solo se è folkloristica o innocua.

Il suo arresto arriva in un contesto in cui l’AKP sta perdendo terreno nelle grandi città. Istanbul, Ankara, Smirne, Bursa: lì il partito di governo non riesce più a parlare alla gente. Il modello economico che aveva sedotto milioni di cittadini si è sgonfiato, schiacciato da inflazione galoppante, disoccupazione e una lira in caduta libera. I giovani non hanno futuro, le famiglie non arrivano a fine mese, e la religione non basta più a riempire i frigoriferi.

Così, mentre il potere si irrigidisce, la società turca si muove. Non con una rivoluzione, ma con una lenta e ostinata resistenza. Sono i giovani, le donne, le nuove classi urbane a guidare questo cambiamento. Quelli che non si riconoscono più né nel nazionalismo esasperato, né nell’islam militante, né nella retorica del “noi contro il mondo”. Quelli che vogliono solo vivere in un paese normale, dove un sindaco non finisce in prigione per un diploma, e dove un presidente non decide chi può o non può candidarsi.

La repressione ha fatto il suo corso. Ma ha anche prodotto l’effetto opposto: ha reso visibile, tangibile, la paura del potere. Perché se davvero İmamoğlu fosse innocuo, non ci sarebbe bisogno di cancellarlo così. E invece lo si colpisce in anticipo, si chiude il gioco prima che cominci. Si grida alla legalità, mentre si calpestano le regole.

È il paradosso dell’islam politico: nato per rompere il monopolio dei militari e dare voce alla religione nella sfera pubblica, è diventato esso stesso un sistema chiuso, autoreferenziale, incapace di convivere con l’alternanza. Non appena la democrazia smette di essere utile, diventa una minaccia. E la si soffoca. Ma la democrazia, quella vera, è testarda. E in Turchia oggi si sta manifestando là dove fa più male al potere: nei quartieri, nelle piazze, nei volti di chi resiste.

L’arresto di İmamoğlu non è solo un caso giudiziario. È uno spartiacque. Non sappiamo se tornerà libero, se riuscirà davvero a candidarsi, se vincerà. Ma il tentativo di cancellarlo dalla scena ha già fallito. Perché oggi milioni di turchi, anche quelli che non lo votano, hanno capito una cosa: chi ha paura del voto non ha più legittimità. E chi ha bisogno di cancellare un diploma per fermare un avversario ha già perso.

Pubblicato su Rainews

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