Connect with us

Articoli

L’azzardo di un clown o un colpo da maestro?

di Zouhir Louassini 17 gennaio 2020

Nella politica internazionale non c’è spazio per l’ingenuità. La solita retorica antiamericana che ha impregnato il discorso della Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, nella preghiera del venerdì a Teheran, non riesce a nascondere le difficoltà del regime iraniano dopo la decisione americana di uccidere il generale Qassem Suleimani, uno degli uomini più potenti del Medio Oriente. Khamenei parla “del potere iraniano di schiaffeggiare un arrogante” come gli Stati Uniti presentando la risposta iraniana come la “dimostrazione che Dio ci sostiene”. È ovvio: lo fa per il consumo interno. Perché i fatti attestano una realtà totalmente diversa: 50 morti tra i manifestanti iraniani, schiacciati durante il funerale di Suleimani; ai quali si aggiungono i 176 morti del Boeing ucraino, abbattuto per mano dei guardiani della rivoluzione.

La risposta iraniana, più simbolica che altro, ha causato il ferimento di 11 soldati americani e qualche danno materiale nelle basi USA in Iraq.

La tensione “calcolata” tra una potenza mondiale e una regionale non poteva finire diversamente. Qualsiasi altra conclusione risponde solo a logiche di schieramento, da tifosi; o a visioni ideologiche per le quali le risposte anticipano le domande. Le leggi internazionali hanno sempre rispettato le ragioni del più forte. Tutto quello che abbiamo visto nelle ultime settimane è stato solo la conferma di questa regola.

Le parole della Guida suprema si leggono, così, come parte di un “dialogo” continuo tra due avversari che si tengono d’occhio l’un l’altro. La loro reazione è sempre nei limiti di un copione ben scritto, perché nessuno degli attori vuole improvvisare. Uccidere il generale Suleimani in Iraq – non in Iran – è stata la prima battuta. L’attacco dell’Iran contro due basi americane – ancora in Iraq – è stata la risposta misurata da parte di un regime che non può e non vuole perdere la faccia davanti alla propria gente.

Uccidendo lo stratega iraniano, il presidente Trump ha deciso di colpire duro per segnare i limiti tra ciò che quel dialogo può o non può includere: no all’uccisione di un interprete statunitense in un attacco missilistico alla base iracho-americana a Kirkuk; e, soprattutto, no all’assedio dell’ambasciata americana di Baghdad. Azioni compiuti entrambe da milizie irachene sciite molto vicine all’Iran.

Quando il Professor Robert Jervis, uno degli osservatori più attenti ai conflitti tra gli stati, scrive su War on the Rocks che dopo quello che è successo nelle ultimi due settimane “né il presidente Trump né gli iraniani sanno cosa fare ora”, descrive una situazione di incertezza che non risponde ai fatti. Nel Medio Oriente, fino a prova contraria, sono gli americani ad avere l’iniziativa. Agli iraniani rimane “l’onore di resistere”.

La ben nota tesi secondo la quale i “nemici dell’Occidente” sarebbero “forti e pericolosi” è un dejà-vu che la storia recente ha smentito. Ricordiamoci la fine dell’ex dittatore iracheno Saddam Hussein e quella del libico Gheddafi. Presentati come grandi avventurieri che mettevano a rischio la pace mondiale, alla fine si è capito che erano solo delle tigri di carta.

La leadership in Iran è cosciente di questo fatto e si comporta in conseguenza. Per armarsi bene ha bisogno di tempo. L’esercito iraniano è pronto per le piccole battaglie regionali ma non lo è per una vera guerra contro gli Stati Uniti. Trump lo sa benissimo: colpisce nel momento giusto e nel posto giusto, rendendo chiaro a tutti chi è che comanda nella regione.

In fondo basta dare un’occhiata alla mappa per rendersi conto che l’Iran è circondato dalla presenza americana: 54mila soldati in una dozzina di Paesi del Medio Oriente, con basi militari in sette di essi.

Non è casuale che la prima frase detta dalla guida spirituale iraniana dopo l’uccisione di Suleimani sia stato il consueto refrain: “la presenza americana nella regione deve finire”. Tuttavia nulla sembra indicare che gli Stati Uniti vogliano abbandonare una zona, come quella mediorientale, di così grande importanza strategica.

Khamenei ha definito Trump un “clown”, nel suo sermone; ma non sarebbe sbagliato – senza che ciò suoni come un giudizio morale – considerare la decisione del presidente di eliminare il generale Soleimani, come la rivelazione di una ambivalenza strategica che segnerà “un prima e un dopo” nei conflitti che affliggono il Medio Oriente.

In assenza di avvertimenti, negli ultimi mesi gli iraniani avevano incrementato il loro vantaggio colpendo le installazioni petrolifere saudite, prendendo in ostaggio le navi nello stretto di Hormuz e distruggendo i droni americani. La risposta di Trump ha solo ristabilito i rapporti di forza, per dare una spinta ad un “dialogo” che non ha fatto altro che iniziare.

Articoli

Chi ha paura della pace?

La parola pace in Medio Oriente è stata talmente usata, manipolata e svuotata che oggi sembra quasi impronunciabile. Nonostante decenni di negoziati falliti, guerre senza tregua e cicli infiniti di violenza, resta l’unica via possibile. Ma chi la ostacola? Chi ha davvero paura della pace?

È questa la domanda al centro del nuovo libro di Zouhir Louassini, giornalista e scrittore, che scava nei nodi più dolorosi del conflitto israelo-palestinese. Il volume non indulge in retorica: parte da fatti concreti, come il massacro del 7 ottobre 2023, quando Hamas ha colpito brutalmente civili innocenti, tra i quali anche israeliani impegnati nel dialogo con i palestinesi. Un atto di violenza che ha avuto un unico obiettivo: distruggere ogni possibilità di convivenza.

Ma l’autore non si ferma a denunciare la barbarie di Hamas. Con la stessa lucidità mette in luce le responsabilità del governo Netanyahu e della destra israeliana, che da anni alimentano un clima di paura, colonizzazione e vendetta. Una leadership che ha usato la retorica della sicurezza per rafforzarsi politicamente, mentre la prospettiva di una pace reale si allontanava sempre di più.

Louassini mette in parallelo queste dinamiche con l’uso distorto delle parole: leader che parlano di “pace” mentre alimentano la guerra, promesse che si trasformano in imposizioni, un linguaggio politico che ricorda le distopie di Orwell, dove i significati vengono rovesciati.

Chi ha paura della pace? è un testo giornalistico ma anche una riflessione universale: mostra come la pace faccia paura a chi vive di conflitto, a chi trae forza e consenso dall’odio. E invita i lettori a chiedersi se la guerra sia davvero inevitabile, o se esista ancora spazio per immaginare scenari pragmatici di convivenza.

Non offre illusioni, ma pone la domanda più scomoda e necessaria: la pace è davvero un’utopia, o è la nostra unica possibilità di futuro?

Continue Reading

Articoli

Partita a scacchi su un ring di pugilato: tra Israele e Iran il nuovo round di una spirale infinita

Gaza, Hezbollah, Siria, Iran: ogni fronte è inserito in una logica coerente, volta a smantellare le reti di minaccia alla sicurezza israeliana

 

Nel ring infuocato del Medio Oriente, il conflitto tra Israele e Iran somiglia sempre più a un ibrido tra una partita di scacchi e un incontro di pugilato. Israele gioca con freddezza strategica: colpisce con precisione chirurgica obiettivi militari, basi e infrastrutture sensibili. Ogni mossa è calcolata, ogni attacco ha un valore operativo ma anche simbolico.

L’Iran, invece, sembra un pugile stordito. Reagisce con colpi confusi, spesso imprecisi, più guidato dall’impulso che da un piano. I droni lanciati in massa, i razzi sparati senza un bersaglio definito, le minacce ripetute ma inefficaci: tutto parla di frustrazione più che di forza.

Ma il vero squilibrio non è solo militare. È soprattutto geopolitico. Teheran si ritrova sempre più isolata. I suoi alleati storici sono in difficoltà: Hezbollah è logorato in Libano da attacchi continui e da una crisi economica devastante; gli Houthi in Yemen sono sotto tiro diretto degli Stati Uniti; Hamas, dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, è intrappolato nella guerra brutale di Gaza. La “mezzaluna sciita”, un tempo simbolo dell’influenza regionale iraniana, si è incrinata sotto il peso della risposta israeliana e dell’isolamento diplomatico.

Anche sul piano internazionale, l’Iran non trova più appoggi solidi. La Russia, pur legata da interessi militari e strategici, è assorbita dalla guerra in Ucraina e non ha alcuna intenzione di aprire un nuovo fronte. La Cina mantiene una distanza prudente: intrattiene rapporti economici con Teheran, ma non intende compromettere la sua immagine globale per una potenza sempre più ingombrante. Mosca e Pechino giocano su più tavoli, ma oggi scelgono la cautela. Nessuno è disposto a esporsi per un Iran sempre più isolato.

Israele, al contrario, agisce con la consapevolezza di avere il vento a favore. Gli Stati Uniti garantiscono copertura diplomatica, supporto tecnologico e una forte capacità di deterrenza. Le potenze occidentali, con sfumature diverse, condividono la percezione dell’Iran come minaccia alla stabilità regionale. Anche molti paesi arabi, pur evitando dichiarazioni ufficiali, vedono con favore il contenimento dell’espansionismo iraniano. Non si può parlare di legittimità internazionale – l’ONU non ha mai approvato formalmente le azioni israeliane – ma è chiaro che Tel Aviv opera dentro un contesto di ampio consenso politico, seppur non dichiarato.

Soprattutto, Israele agisce secondo una visione. La risposta all’attacco del 7 ottobre non è stata solo militare: è parte di una strategia a lungo termine per ridisegnare gli equilibri regionali. Gaza, Hezbollah, Siria, Iran: ogni fronte è inserito in una logica coerente, volta a smantellare le reti di minaccia alla sicurezza israeliana. È una dottrina fondata su azione preventiva, superiorità tecnologica e iniziativa diplomatica.

Ma tutto questo solleva una domanda cruciale: quanto può durare questa spirale? Fino a quando la sicurezza israeliana potrà basarsi su guerre preventive, attacchi anticipati, operazioni giustificate da minacce reali o anche solo percepite? Perché anche la semplice sensazione di una minaccia, per Israele, si traduce quasi sempre in un’azione militare. È una strategia che ha prodotto risultati tattici, ma ha anche cronicizzato il conflitto. Ogni guerra genera la successiva.

Dal 1948, anno della nascita dello Stato di Israele, il Medio Oriente non ha mai conosciuto una pace duratura. Solo tregue provvisorie, pause tra una crisi e l’altra. Il paradosso è tutto qui: per difendersi, Israele è costretto ad attaccare. Ma ogni attacco riaccende il fuoco, rafforza il nemico, alimenta nuove tensioni.

Forse è il momento di affiancare alla forza una visione politica diversa. Perché la sicurezza, quella vera, nasce anche da una giustizia riconoscibile. E giustizia, in questa regione, significa accettare finalmente la creazione di uno Stato palestinese indipendente, con interlocutori legittimi e affidabili — non certo Hamas. Un processo difficile, certo, ma che potrebbe finalmente dare senso a un equilibrio fondato non solo sulla deterrenza, ma anche sulla legittimità e sul rispetto reciproco.

Finché la pace resterà un’idea astratta e non un progetto concreto, ovvero un “compromesso” ragionevole fra tutti gli Stati della regione, il Medio Oriente continuerà a giocare a scacchi con i pugni. E ogni vittoria, per quanto brillante, sarà solo il preludio a un nuovo round.

Pubblicato il 15/6/2025 su Rainews

Continue Reading

Articoli

Tangeri, 1890. Intrigo, potere e resistenza: La strategia del pesce nano, il primo romanzo di Zouhir Louassini

Una storia avvincente ispirata a fatti reali che riporta alla luce una pagina dimenticata della storia marocchina, tra spionaggio, tensioni internazionali e dignità ferita.

È disponibile su Amazon La strategia del pesce nano, il primo romanzo dello scrittore e giornalista marocchino Zouhir Louassini. Ambientato nella Tangeri del 1890, il libro trascina il lettore in un’indagine che va oltre il mistero iniziale – l’assassinio di un cittadino italiano – per esplorare gli intricati rapporti di forza tra il Marocco e le grandi potenze coloniali.

Tangeri, all’epoca, era una città di frontiera e d’intrigo, abitata da consoli stranieri, spie, mercanti e diplomatici che operavano sotto la protezione di un sistema consolare arrogante e impunito. Louassini costruisce, con eleganza narrativa e rigore storico, un giallo politico che illumina i meccanismi opachi dell’epoca, le tensioni diplomatiche e le strategie sottili adottate da chi – pur privo di potere militare – cercava di sopravvivere e difendere la propria sovranità.

Il titolo del romanzo, La strategia del pesce nano, diventa emblema di questa resistenza silenziosa: quella di chi, pur piccolo e fragile, riesce a muoversi con astuzia nel mare agitato degli imperi coloniali.

Con uno stile limpido e cinematografico, il romanzo restituisce una Tangeri affascinante e contraddittoria, sospesa tra tradizione e modernità, tra dominio straniero e orgoglio marocchino. Louassini non si limita a raccontare un fatto di cronaca: invita il lettore a riflettere sul presente, sulle relazioni di forza internazionali, e sulla sottile linea tra giustizia e impunità.

 

 

 

 

 

Continue Reading

Marocco, Islam