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Papa Francesco e il mondo islamico: la via giusta

Di Zouhir Louassini. L’Osservatore Romano (13/11/2013).

Sarà anche una questione di gusti personali, ma se c’è un libro che ha scosso qualche mia convinzione è Contro il fanatismo di Amos Oz. Certo, probabilmente ci sono libri più profondi, ma la logica usata dallo scrittore israeliano in questo pamphlet entusiasma per la sua chiarezza e semplicità. Soprattutto per chi si avvicina alla realtà mediorientale.

In un’ottantina di pagine l’autore è riuscito a spiegare un male molto diffuso: quello dell’arte del tifare piuttosto che ragionare. Si svela così un mondo in cui è tutto bianco o tutto nero, una specie di film western continuo dove il bene lotta contro il male, dimenticando che molte volte la realtà è più complessa. E anche se nel caso specifico lo scrittore israeliano ragiona sul conflitto israelo-palestinese, le conclusioni che trae sono applicabili anche ad altre situazioni. La soluzione secondo Oz si può sintetizzare in una sola parola: compromesso. Perché «dove c’è vita ci sono compromessi», così come dove non ci sono compromessi ci può essere solo fanatismo. Ecco l’origine di questo male.

Credo che sia proprio in questa direzione che bisogna analizzare i messaggi che Papa Francesco sta mandando al mondo islamico, una linea di chiara apertura verso la maggioranza dei musulmani. Il fanatismo è solo la malattia della religione. Non è la normalità e non è la religione. Il Pontefice, dal suo arrivo e in pochi gesti di grande importanza simbolica, è riuscito a spiegare meglio di chiunque altro questo concetto che può sembrare ovvio ma che molte volte è difficile, per non dire impossibile, capire.

Il gesto più importante è sicuramente quello fatto durante l’Angelus del primo settembre scorso, in cui ha richiamato all’attenzione del mondo la guerra che da due anni e mezzo sta lacerando la Siria. Lo ha fatto con parole semplici ma chiare, senza prendere posizione se non quella di difendere il diritto alla vita di milioni di siriani.

La mossa del Papa era quella giusta e per capirlo bastava andare a vedere, su internet, la risposta di gruppi fanatici: discredito all’invito del Pontefice, confondendo quelli che erano l’intenzione e lo scopo unitario con una sfiducia totale, usando oltretutto un linguaggio che deriva direttamente da epoche lontane, come se il mondo fosse rimasto fermo al tempo delle crociate. Un discredito rivolto anche alla maggioranza dei musulmani che, come era prevedibile, si sono trovati subito d’accordo con l’appello di Papa Francesco.

Bastava leggere la risposta del Gran Mufti di Siria, Ahmad Badreddin Hassou, leader spirituale dell’islam sunnita nel Paese, per capire l’impatto all’interno della comunità musulmana. Hassou si è detto profondamente colpito dall’appello del Pontefice per la pace in Siria, esprimendo il desiderio di essere presente a San Pietro per la veglia di preghiera.

Una risposta talmente positiva della grande maggioranza dei musulmani è da attribuire probabilmente al fatto che essi avvertono la leadership spirituale mondiale di Papa Francesco. Siamo davanti a un predicatore il quale globalizza valori fondamentali che dovrebbero essere intrinseci alla natura umana: pace, fratellanza, amore.

Un Pontefice che annuncia valori positivi, insomma, con cui è difficile non essere d’accordo, perché non si tratta di valori che hanno bandiera politica o dogma religioso, bensì una visione che può avviare, e questa volta sul serio, un vero dialogo tra il cristianesimo e l’islam. Dialogo in cui la parola chiave è proprio quella indicata da Oz: il compromesso. E non c’è miglior compromesso di quello volto a difendere la dignità umana cercando di vedere nell’altro tutto ciò che unisce, invece di insistere su quello che separa.

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Chi ha paura della pace?

La parola pace in Medio Oriente è stata talmente usata, manipolata e svuotata che oggi sembra quasi impronunciabile. Nonostante decenni di negoziati falliti, guerre senza tregua e cicli infiniti di violenza, resta l’unica via possibile. Ma chi la ostacola? Chi ha davvero paura della pace?

È questa la domanda al centro del nuovo libro di Zouhir Louassini, giornalista e scrittore, che scava nei nodi più dolorosi del conflitto israelo-palestinese. Il volume non indulge in retorica: parte da fatti concreti, come il massacro del 7 ottobre 2023, quando Hamas ha colpito brutalmente civili innocenti, tra i quali anche israeliani impegnati nel dialogo con i palestinesi. Un atto di violenza che ha avuto un unico obiettivo: distruggere ogni possibilità di convivenza.

Ma l’autore non si ferma a denunciare la barbarie di Hamas. Con la stessa lucidità mette in luce le responsabilità del governo Netanyahu e della destra israeliana, che da anni alimentano un clima di paura, colonizzazione e vendetta. Una leadership che ha usato la retorica della sicurezza per rafforzarsi politicamente, mentre la prospettiva di una pace reale si allontanava sempre di più.

Louassini mette in parallelo queste dinamiche con l’uso distorto delle parole: leader che parlano di “pace” mentre alimentano la guerra, promesse che si trasformano in imposizioni, un linguaggio politico che ricorda le distopie di Orwell, dove i significati vengono rovesciati.

Chi ha paura della pace? è un testo giornalistico ma anche una riflessione universale: mostra come la pace faccia paura a chi vive di conflitto, a chi trae forza e consenso dall’odio. E invita i lettori a chiedersi se la guerra sia davvero inevitabile, o se esista ancora spazio per immaginare scenari pragmatici di convivenza.

Non offre illusioni, ma pone la domanda più scomoda e necessaria: la pace è davvero un’utopia, o è la nostra unica possibilità di futuro?

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Partita a scacchi su un ring di pugilato: tra Israele e Iran il nuovo round di una spirale infinita

Gaza, Hezbollah, Siria, Iran: ogni fronte è inserito in una logica coerente, volta a smantellare le reti di minaccia alla sicurezza israeliana

 

Nel ring infuocato del Medio Oriente, il conflitto tra Israele e Iran somiglia sempre più a un ibrido tra una partita di scacchi e un incontro di pugilato. Israele gioca con freddezza strategica: colpisce con precisione chirurgica obiettivi militari, basi e infrastrutture sensibili. Ogni mossa è calcolata, ogni attacco ha un valore operativo ma anche simbolico.

L’Iran, invece, sembra un pugile stordito. Reagisce con colpi confusi, spesso imprecisi, più guidato dall’impulso che da un piano. I droni lanciati in massa, i razzi sparati senza un bersaglio definito, le minacce ripetute ma inefficaci: tutto parla di frustrazione più che di forza.

Ma il vero squilibrio non è solo militare. È soprattutto geopolitico. Teheran si ritrova sempre più isolata. I suoi alleati storici sono in difficoltà: Hezbollah è logorato in Libano da attacchi continui e da una crisi economica devastante; gli Houthi in Yemen sono sotto tiro diretto degli Stati Uniti; Hamas, dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, è intrappolato nella guerra brutale di Gaza. La “mezzaluna sciita”, un tempo simbolo dell’influenza regionale iraniana, si è incrinata sotto il peso della risposta israeliana e dell’isolamento diplomatico.

Anche sul piano internazionale, l’Iran non trova più appoggi solidi. La Russia, pur legata da interessi militari e strategici, è assorbita dalla guerra in Ucraina e non ha alcuna intenzione di aprire un nuovo fronte. La Cina mantiene una distanza prudente: intrattiene rapporti economici con Teheran, ma non intende compromettere la sua immagine globale per una potenza sempre più ingombrante. Mosca e Pechino giocano su più tavoli, ma oggi scelgono la cautela. Nessuno è disposto a esporsi per un Iran sempre più isolato.

Israele, al contrario, agisce con la consapevolezza di avere il vento a favore. Gli Stati Uniti garantiscono copertura diplomatica, supporto tecnologico e una forte capacità di deterrenza. Le potenze occidentali, con sfumature diverse, condividono la percezione dell’Iran come minaccia alla stabilità regionale. Anche molti paesi arabi, pur evitando dichiarazioni ufficiali, vedono con favore il contenimento dell’espansionismo iraniano. Non si può parlare di legittimità internazionale – l’ONU non ha mai approvato formalmente le azioni israeliane – ma è chiaro che Tel Aviv opera dentro un contesto di ampio consenso politico, seppur non dichiarato.

Soprattutto, Israele agisce secondo una visione. La risposta all’attacco del 7 ottobre non è stata solo militare: è parte di una strategia a lungo termine per ridisegnare gli equilibri regionali. Gaza, Hezbollah, Siria, Iran: ogni fronte è inserito in una logica coerente, volta a smantellare le reti di minaccia alla sicurezza israeliana. È una dottrina fondata su azione preventiva, superiorità tecnologica e iniziativa diplomatica.

Ma tutto questo solleva una domanda cruciale: quanto può durare questa spirale? Fino a quando la sicurezza israeliana potrà basarsi su guerre preventive, attacchi anticipati, operazioni giustificate da minacce reali o anche solo percepite? Perché anche la semplice sensazione di una minaccia, per Israele, si traduce quasi sempre in un’azione militare. È una strategia che ha prodotto risultati tattici, ma ha anche cronicizzato il conflitto. Ogni guerra genera la successiva.

Dal 1948, anno della nascita dello Stato di Israele, il Medio Oriente non ha mai conosciuto una pace duratura. Solo tregue provvisorie, pause tra una crisi e l’altra. Il paradosso è tutto qui: per difendersi, Israele è costretto ad attaccare. Ma ogni attacco riaccende il fuoco, rafforza il nemico, alimenta nuove tensioni.

Forse è il momento di affiancare alla forza una visione politica diversa. Perché la sicurezza, quella vera, nasce anche da una giustizia riconoscibile. E giustizia, in questa regione, significa accettare finalmente la creazione di uno Stato palestinese indipendente, con interlocutori legittimi e affidabili — non certo Hamas. Un processo difficile, certo, ma che potrebbe finalmente dare senso a un equilibrio fondato non solo sulla deterrenza, ma anche sulla legittimità e sul rispetto reciproco.

Finché la pace resterà un’idea astratta e non un progetto concreto, ovvero un “compromesso” ragionevole fra tutti gli Stati della regione, il Medio Oriente continuerà a giocare a scacchi con i pugni. E ogni vittoria, per quanto brillante, sarà solo il preludio a un nuovo round.

Pubblicato il 15/6/2025 su Rainews

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Tangeri, 1890. Intrigo, potere e resistenza: La strategia del pesce nano, il primo romanzo di Zouhir Louassini

Una storia avvincente ispirata a fatti reali che riporta alla luce una pagina dimenticata della storia marocchina, tra spionaggio, tensioni internazionali e dignità ferita.

È disponibile su Amazon La strategia del pesce nano, il primo romanzo dello scrittore e giornalista marocchino Zouhir Louassini. Ambientato nella Tangeri del 1890, il libro trascina il lettore in un’indagine che va oltre il mistero iniziale – l’assassinio di un cittadino italiano – per esplorare gli intricati rapporti di forza tra il Marocco e le grandi potenze coloniali.

Tangeri, all’epoca, era una città di frontiera e d’intrigo, abitata da consoli stranieri, spie, mercanti e diplomatici che operavano sotto la protezione di un sistema consolare arrogante e impunito. Louassini costruisce, con eleganza narrativa e rigore storico, un giallo politico che illumina i meccanismi opachi dell’epoca, le tensioni diplomatiche e le strategie sottili adottate da chi – pur privo di potere militare – cercava di sopravvivere e difendere la propria sovranità.

Il titolo del romanzo, La strategia del pesce nano, diventa emblema di questa resistenza silenziosa: quella di chi, pur piccolo e fragile, riesce a muoversi con astuzia nel mare agitato degli imperi coloniali.

Con uno stile limpido e cinematografico, il romanzo restituisce una Tangeri affascinante e contraddittoria, sospesa tra tradizione e modernità, tra dominio straniero e orgoglio marocchino. Louassini non si limita a raccontare un fatto di cronaca: invita il lettore a riflettere sul presente, sulle relazioni di forza internazionali, e sulla sottile linea tra giustizia e impunità.

 

 

 

 

 

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Marocco, Islam