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الوسيني: الدعوة إلى “مسح إسرائيل” أكبرَ حليف للخطاب الصهيوني

تكفي نظرة سطحية للواقع العربي خلال العشرين سنة الأخيرة لكي نفهم ما هو موقعنا في الخريطة العالمية.

كان لدي زميل مصري طالما يردد جملة ربما سمعها من أحد مواطنيه: “عبد الناصر انهزم في حرب 67 فلما قدم استقالته كمسؤول أول عن الانتكاسة خرج الشعب المصري إلى الشوارع مطالبا إياه بعدم التنحي. لما أتى السادات واستعاد الأرض قتلوه”. جملة على بساطتها تلخص تخبط الإنسان العربي عموما أمام واقع غير مفهوم ومليء بالتناقضات كما هو حالنا منذ زمن بعيد.

مباشرة بعد الإعلان عن الاتفاق الإماراتي الإسرائيلي، بدأ مهرجان التخوين الذي تعودنا عليه كلما تعلق الأمر بالقضية الفلسطينية. فعوض التحليل العقلاني لواقع جيو-سياسي متحرك في منطقة حساسة جدا حبلى بكل النزاعات الممكنة، اكتفى أغلب الإعلاميين العرب وجزء كبير من الرأي العام العربي بترديد أسطوانة الخيانة ورجم من يعتقدون أن الواقع أكثر تعقيدا من تلخيصه في شعارات ساذجة يؤمن أصحابها بأنها كافية لتحرير البلاد والعباد.

لا أريد الدخول هنا في حيثيات القرار الإماراتي الذي يستجيب أساسا لحق سيادي يجب احترامه ثم بعد ذلك يمكن مناقشته أو حتى انتقاده، ولكن دائما في إطار اللياقة التي يفرضها التعامل مع دولة شقيقة، فلغة المزايدات أثبتت عدم جدواها منذ أن بدأ الصراع العربي الإسرائيلي. فبينما إسرائيل كانت، ومازالت، تخطط للتفاوض دائما من موقع قوة، اكتفى العرب بالتنديد والاستنكار بأسلوب يدل عن درجة الفشل والإحباط في تدبير هذا الملف.

أكثر من ذلك، فإن الزعماء الفلسطينيين عملوا ما في جهدهم لكي يستقلوا بقراراتهم السياسية، وبالتالي الدخول في مفاوضات مباشرة مع “العدو الصهيوني” أسفرت عن النتائج التي نعرفها جميعا والتي زادت الوضع تأزما.

حقا إن إسرائيل خططت وبذكاء للاستفراد بالفلسطينيين وعزلهم عن محيطهم العربي، ولكن لم نر أي زعيم فلسطيني يقف ضد هذا التوجه، بل بالعكس كل القيادات حاولت أن تدافع على مصالح جد ضيقة نرى عواقبها اليوم تتجسد أساسا في العزلة الحقيقية التي تعيشها القضية الفلسطينية عالميا، والتي أصبحت ورقة قليلة الأهمية في صراعات إقليمية أكثر حدة.

السياسة الدولية لا تعترف بالكلمات الرنانة ولا بالشعارات كيفما كان نوعها؛ هناك فقط منطق واحد يعترف بموازين القوى لكل دولة على حدة. فمنذ نشأة إسرائيل سنة 1948، وهي تزيد قوة وتقدما يساعدها على لعب كل أوراقها السياسية بتدبير محكم تتجلى نتائجه على كل المستويات.

في المقابل، الدول العربية تزيد تشرذما وتخاذلا في قضاياها المصيرية الحقيقية. الشجاعة تبدأ من الاعتراف بهذا الواقع والتخطيط لتغييره وليس الاستجداء بقاموس التخوين لكل من يبحث عن طريق آخر للدفاع عن مصالح بلده.

حينما نتحدث عن التغيير، يجب التأكيد أنه لن يكون بدون إرادة سياسية لأصحاب القرار، ما دمنا نعرف أن الرأي العام العربي محدود الفعالية ويكتفي بالتعبير عن تذمره عبر وسائل التواصل الاجتماعي.

لذا، فالحسابات يجب أن تكون دقيقة وتأخذ بعين الاعتبار أن تغيير موازين القوى مرتبط ببناء داخلي صلب يعتمد على قناعة أن الحرب الحقيقية التي خسرناها منذ مدة هي بناء مواطن له دراية بالعالم الذي يعيش فيه اليوم وتجنيبه خراب ايديولوجيات ترميه في أحضان ماض غير موجود بعقلية تجعله لقمة سائغة لكل من لا يريد الخير لهذا الجزء من العالم.

إن قراءة هادئة لما يحصل في الأراضي المحتلة، وبكل موضوعية، توضح أن أكبر حليف للخطاب الصهيوني اليوم، وربما في الماضي أيضا، هو الخطاب الذي يتمترس خلف خطابات فضفاضة تدعو إلى تحرير فلسطين ومسح إسرائيل من الخريطة بدون أي مقاربة عملية.

من يستمر في هذا الخطاب، وعن حسن نية بالتأكيد، يساهم في تغذية التوسع الإسرائيلي الذي تعي قياداته أن الزمن حليف من يحسن اللعب في الرقعة الأممية. تكفي نظرة سطحية للواقع العربي خلال العشرين سنة الأخيرة لكي نفهم ما هو موقعنا في الخريطة العالمية. وشرح الواضحات من المفضحات.

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Un Assad sunnita o il padre illuminato di una nuova Siria? Che cosa possiamo aspettarci da Al Sharaa

La vera incognita è se il suo cambiamento sia sincero o se sia solo l’ennesima maschera di un gioco politico più grande

Zouhir Louassini Rainews 24 (03-02-2025)

A Damasco, lontano dalle telecamere ufficiali, un incontro ha catturato l’attenzione della Siria e della comunità internazionale. Ahmed Al Shaara, il nuovo presidente siriano, ha presentato sua moglie, Latifa Al Shaara, a un gruppo di donne della diaspora siriana negli Stati Uniti. Un gesto apparentemente semplice, ma carico di implicazioni politiche e simboliche.

Al Shaara ha colto l’occasione per smentire le voci secondo cui avrebbe più mogli, dichiarando con tono scherzoso: “Non c’è nessun’altra, tutto ciò che sentite sui social media sono solo voci”. Le presenti hanno descritto Latifa Al Shaara come una donna elegante, istruita e discreta, dal portamento raffinato e dallo stile tradizionale ma sobrio. Ma oltre le apparenze, questo episodio suggerisce un nuovo corso per la Siria, una nazione che, dopo anni di conflitto, si trova ora a un bivio sotto la guida di un leader con un passato complesso e un futuro ancora tutto da scrivere.

Ahmed Al Shaara, già noto con il nome di Abu Mohammed Al Jolani, è stato a lungo una figura controversa sulla scena siriana. Fondatore di Jabhat al-Nusra, l’ex filiale siriana di Al Qaeda, ha saputo trasformare il proprio ruolo, passando da capo jihadista a leader politico riconosciuto. Con il tempo, ha smussato le posizioni più radicali, distanziandosi dall’estremismo e ricollocandosi in una dimensione più pragmatica. La sua organizzazione, Hayat Tahrir al-Sham (HTS), ha evoluto la propria natura da gruppo militante a entità amministrativa che governa Idlib, imponendo leggi, gestendo infrastrutture e stabilendo relazioni strategiche con la Turchia e il Qatar. Ora, con il sostegno ufficiale di Ankara, Doha e Riyadh, ha consolidato il suo potere e ha ottenuto quella legittimità politica che per anni sembrava irraggiungibile.

Il sostegno di questi attori regionali è un elemento cruciale per comprendere il futuro di Al Shaara. La Turchia lo considera una figura chiave per stabilizzare il nord della Siria e contenere l’influenza curda, mentre il Qatar e l’Arabia Saudita vedono in lui un’opportunità per ridisegnare gli equilibri di potere nella regione, sfidando l’influenza iraniana e la presenza russa. La sua leadership rappresenta quindi una svolta non solo per la Siria, ma per l’intero Medio Oriente. Tuttavia, la sua accettazione sulla scena internazionale rimane un punto interrogativo. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea continuano a guardarlo con diffidenza.

Ma il vero cambiamento che Al Shaara porta in Siria è reale o solo un’operazione di facciata? Se da un lato la sua immagine pubblica si è ripulita rispetto al passato, dall’altro la sua ascesa è ancora legata a logiche di potere regionali e a un contesto in cui il pragmatismo si mescola a calcoli strategici. La presentazione della first lady e la costruzione di un’immagine presidenziale moderna potrebbero non essere altro che strumenti per ottenere la fiducia dell’Occidente, dimostrare di essere un interlocutore affidabile e spingere per una rimozione graduale delle sanzioni. Il suo tentativo di mostrarsi come un leader “responsabile”, aperto al dialogo e distante dal jihadismo del passato potrebbe convincere alcuni, ma non cancella il fatto che il suo potere si fondi ancora su una rete di alleanze militari e sull’uso della forza per mantenere il controllo nelle aree sotto il suo dominio.

Il futuro di Al Shaara potrebbe seguire diverse direzioni. Se riuscirà a consolidare il proprio governo e ottenere riconoscimenti diplomatici più ampi, potrebbe emergere come il leader di una Siria post-Assad, offrendo un’alternativa a decenni di dominio alawita e di repressione. Se invece le pressioni esterne e le rivalità interne dovessero indebolirlo, potrebbe ritrovarsi a gestire un potere fragile, limitato alle aree sotto il suo diretto controllo e sempre esposto al rischio di destabilizzazione.

La presentazione pubblica di Latifa Al Shaara non è solo un episodio di cronaca, ma un tassello di una strategia più ampia. Costruire un’immagine presidenziale, legittimare il proprio ruolo e distanziarsi dal passato jihadista sono passi fondamentali per garantire la stabilità del suo governo e ottenere il riconoscimento internazionale. Ma la domanda rimane aperta: sarà un nuovo “Assad sunnita”, in grado di governare con fermezza una Siria frammentata, o riuscirà a tracciare una via alternativa, modellando un nuovo equilibrio politico per il Paese? La vera incognita è se il suo cambiamento sia sincero o se sia solo l’ennesima maschera di un gioco politico più grande. Il suo destino dipenderà dalla capacità di navigare tra le ambizioni regionali e le sfide interne, in uno scenario dove nulla è ancora definitivamente scritto.

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Gaza, una tregua labile tra le macerie: le cause profonde del conflitto restano senza risposta

Zouhir Louassini Rainews 16-01-2025

Se non accadrà nulla di imprevisto, una tregua è attesa per domenica prossima. Non si tratta, tuttavia, di un accordo di pace, ma di un semplice cessate il fuoco temporaneo. Ed è proprio questo il nodo cruciale: la tregua non affronta le cause profonde del conflitto né offre alcuna prospettiva concreta di una soluzione stabile e duratura. Nel frattempo, i bombardamenti continuano senza sosta, il numero delle vittime cresce inesorabilmente e Gaza appare sempre più devastata, piegata al limite delle sue possibilità.

Eppure, nonostante questa desolazione, la leadership di Hamas non rinuncia a proclamare una “vittoria”, amplificata dai movimenti islamisti e da alcune frange della sinistra araba che celebrano la resistenza contro Israele. Ma cosa rimane davvero di questa proclamata “vittoria”? Soltanto macerie, migliaia di sfollati, decine di migliaia di morti e una popolazione intrappolata in una crisi umanitaria senza fine. Dichiarare un trionfo in condizioni tanto drammatiche appare più come un esercizio di propaganda che una rappresentazione onesta della realtà.

Hamas, inoltre, sembra incapace o forse volutamente restio a riconoscere i profondi cambiamenti che hanno trasformato il panorama geopolitico della regione negli ultimi quindici mesi. Hezbollah, un tempo al centro delle dinamiche di potere, ha visto indebolirsi la propria influenza; l’Iran, a lungo protagonista, ha subito sconfitte decisive che ne hanno ridimensionato il ruolo nella regione. Nel frattempo, il regime di Bashar al-Assad è crollato, aprendo la strada a un nuovo governo impegnato a riconquistare il controllo sulla Siria. In Libano, un nuovo presidente cerca di ristabilire l’autorità dello Stato, lavorando per ricondurre le milizie di Hezbollah sotto il comando centrale, un passaggio che sta ridisegnando i fragili equilibri interni ed esterni del Paese.

Parallelamente, Hamas sembra ignorare il ruolo crescente della Turchia di Erdogan, che si sta affermando come uno dei principali vincitori di questi sconvolgimenti regionali. Con una strategia chiara e ambiziosa, Erdogan sta capitalizzando sui vuoti di potere lasciati dall’Iran, espandendo la propria influenza economica, politica e militare. Dal Mediterraneo orientale alla Libia, passando per il Medio Oriente, la Turchia si posiziona come una potenza regionale, richiamando l’eredità e l’ambizione dell’antico Impero Ottomano. Questo dinamismo turco si intreccia con la debolezza degli attori tradizionali, rendendo Ankara un interlocutore chiave nel nuovo assetto geopolitico.

Paradossalmente, le azioni di Hamas hanno fornito anche una via d’uscita politica a Benjamin Netanyahu. Prima del 7 ottobre, il primo ministro israeliano affrontava una crisi politica interna senza precedenti, aggravata dalle proteste contro le sue riforme giudiziarie e dal crescente malcontento nei suoi confronti. Tuttavia, il conflitto con Gaza gli ha permesso di ridefinire la sua immagine, trasformandolo in un difensore degli interessi nazionali. Oggi Netanyahu si presenta come una figura quasi eroica, sostenuta da un’opinione pubblica unita nel percepire il conflitto come una questione esistenziale.

Riconoscere le responsabilità di Hamas, tuttavia, non significa ignorare quelle di Israele nella situazione attuale. Il conflitto in Medio Oriente non è iniziato il 7 ottobre, ma affonda le sue radici in decenni di tensioni, errori e incomprensioni. Senza una piena consapevolezza dei fattori storici e politici che hanno condotto a questa realtà, Israele rischia di ripetere gli stessi errori. La forza militare da sola non è sufficiente: servono visione, strategia e comprensione delle dinamiche regionali. Solo così sarà possibile non solo vincere, ma costruire un futuro sostenibile. Questo approccio potrebbe rappresentare un elemento cruciale per qualunque reale prospettiva di pace.

Questi sviluppi, che avrebbero dovuto stimolare una revisione strategica da parte di Hamas, sono invece stati ignorati. Il movimento appare ancorato a una visione politica e strategica superata, incapace di adattarsi alla velocità con cui il Medio Oriente evolve. Questa cecità politica non solo isola ulteriormente Gaza, ma condanna la sua popolazione a restare prigioniera di un’ideologia distante dalla realtà e dalle necessità più urgenti, fino alla prossima guerra e alla futura tregua.

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La “nuova Siria”, ancora prigioniera di un ciclo di dittature e fanatismi

di Zouhir Louassini Rainews (10-12-2024)

Il regime siriano di ieri era oppressivo, e quello attuale non è da meno, se non addirittura più oscuro. Una visione che soffoca ogni speranza continua a prevalere, lasciando un popolo già stremato dalla guerra intrappolato in un ciclo di dolore e repressione. Negli ultimi giorni, la Siria è tornata al centro del dibattito internazionale, ma non per le ragioni che si potrebbero immaginare. Gli sviluppi sul campo mettono in luce le contraddizioni morali di molti osservatori e governi, mentre una narrativa ambigua si adatta agli interessi geopolitici del momento.

Gruppi che fino a poco tempo fa erano considerati terroristi vengono ora descritti da alcuni come “ribelli” o persino “resistenze legittime”. Tuttavia, questo cambiamento terminologico non si basa su una trasformazione reale delle loro azioni o ideologie, bensì su un adeguamento linguistico dettato da necessità strategiche, che cela un pericoloso doppio standard. Le azioni di questi gruppi armati, responsabili di terrore e destabilizzazione, vengono giustificate senza considerare le devastanti implicazioni per il paese. Come si può condannare un attore in un contesto e legittimarlo in un altro? Quali sono le conseguenze per una nazione che da anni paga un prezzo altissimo per la sua instabilità?

L’Islam politico, con le sue molteplici sfumature, condivide l’obiettivo di imporre una visione rigida della società, in opposizione non solo ai valori occidentali, ma anche a ogni tentativo di modernizzare il mondo arabo-islamico. La modernità è spesso percepita come un’imposizione culturale estranea alla tradizione. Questa visione si radica nella Fratellanza Musulmana e negli scritti di Sayyid Qotb, uno dei principali ideologi del movimento, che ha elaborato molte delle teorie alla base del Jihad moderno.

La figura di Sayyid Qotb è centrale per comprendere le radici ideologiche di molti movimenti islamisti contemporanei. Nel suo testo più noto, Ma‘alim fi al-Tariq (Pietre miliari), Qotb teorizza la necessità di un’azione militante, o Jihad, per costruire una società islamica autentica, purificata da qualsiasi influenza occidentale o moderna. Per Qotb, l’Occidente rappresenta una corruzione morale e una minaccia esistenziale per il mondo islamico. Inoltre, egli definisce come jahiliyya (ignoranza pre-islamica) non solo l’Occidente, ma anche qualsiasi governo musulmano che non aderisca rigidamente alla sharia. Il Jihad, secondo questa visione, non si limita alla difesa, ma diventa un obbligo offensivo per abbattere sistemi considerati corrotti o deviati, ispirando movimenti come Al-Qaeda e ISIS.

Le idee di Qotb, unite alla capacità della Fratellanza di adattare il proprio linguaggio, rendono l’avanzata dell’Islam politico ancora più insidiosa. Dietro parole apparentemente rassicuranti si nasconde una visione totalitaria che rifiuta ogni apertura. Questo duplice gioco alimenta non solo il sospetto verso l’Islam politico, ma anche conflitti interni alle società arabe, dove il linguaggio della moderazione è spesso utilizzato per legittimare agende estremiste.

La Siria rappresenta oggi il simbolo di profonde contraddizioni. I cambiamenti di assetto politico non riflettono una reale evoluzione sul terreno, ma rispondono a strategie geopolitiche che trascurano le drammatiche conseguenze per il popolo siriano. Dietro queste nuove definizioni si nasconde una visione totalitaria che rifiuta il pluralismo e ogni forma di compromesso, condannando il paese a rimanere intrappolato in un ciclo di oppressione. Né il regime di Bashar al-Assad né le forze jihadiste offrono un’alternativa credibile in grado di restituire dignità e diritti alla popolazione.

Nessuno rimpiange il regime di Bashar al-Assad, che ha trasformato la Siria in uno stato poliziesco caratterizzato da repressione brutale, torture e violazioni sistematiche dei diritti umani. Tuttavia, la sua caduta non ha portato né pace né libertà, lasciando spazio a nuovi oppressori guidati da ideologie totalitarie che soffocano ogni speranza di cambiamento. La Siria rimane prigioniera di un ciclo di dittature e fanatismi, senza una reale prospettiva di transizione.

La vera tragedia della Siria è il fallimento di una trasformazione autentica, capace di offrire al suo popolo pace, libertà e dignità. Le aspirazioni di milioni di persone continuano a essere tradite da chi sfrutta religione o politica per consolidare il proprio dominio. È tempo di superare le contraddizioni della politica internazionale e di riconoscere che la Siria non può restare intrappolata in un futuro senza speranza. Solo una visione chiara e coerente, che metta al centro le legittime esigenze del popolo siriano, potrà spezzare questo ciclo di sofferenza e offrire al paese una prospettiva di rinascita.

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Marocco, Islam