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La fragile tregua: un’occasione storica per il Libano

La pausa nelle ostilità potrebbe trasformarsi nella scintilla per un cambiamento radicale: il ritorno dello Stato al centro del potere e la fine dell’era di Hezbollah come “Stato nello Stato”.

di Zouhir Louassini (RAINEWS)

Il cessate il fuoco appena entrato in vigore tra Israele e Hezbollah rappresenta molto più di una semplice tregua temporanea: è un passaggio cruciale nella tormentata storia del Libano. Questo Paese, da decenni in lotta per riaffermare la propria sovranità, vive all’ombra di forze interne ed esterne che ne ostacolano l’emancipazione. La pausa nelle ostilità potrebbe trasformarsi nella scintilla per un cambiamento radicale: il ritorno dello Stato al centro del potere e la fine dell’era di Hezbollah come “Stato nello Stato”.

Hezbollah ha sempre incarnato una realtà ambivalente per il Libano. Nato come movimento di resistenza contro l’occupazione israeliana, ha progressivamente ampliato il proprio ruolo, fino a diventare una forza politico-militare con un’influenza che travalica i confini nazionali. Tuttavia, il prezzo pagato dal Paese per questa dinamica è stato altissimo: profonde divisioni interne, isolamento internazionale e una drammatica perdita di sovranità su ampie porzioni del territorio.

Con questa tregua mediata dagli Stati Uniti, il Libano ha ora un’occasione unica per ridefinire il proprio futuro. L’accordo prevede il ritiro delle forze di Hezbollah dal sud del Paese, creando le condizioni per un riequilibrio delle forze sul campo. Non si tratta solo di un adempimento tecnico necessario al mantenimento della pace, ma di un passo fondamentale verso il pieno recupero del controllo territoriale da parte del governo libanese, premessa imprescindibile di qualsiasi Stato sovrano.

Ma questa opportunità non si concretizzerà senza un chiaro impegno politico. La leadership libanese deve dimostrare una visione strategica e una capacità di guida che finora sono mancate. Il disarmo di Hezbollah e l’integrazione delle sue forze nell’esercito nazionale rappresentano sfide immense, considerando il radicamento del gruppo nella società libanese e il sostegno diretto da parte dell’Iran. Un primo passo potrebbe essere avviare una politica di riconciliazione interna, fondata su un dialogo trasparente tra le diverse componenti politiche e confessionali del Paese.

Il supporto della comunità internazionale sarà cruciale per trasformare questa tregua in una svolta duratura. Stati Uniti, Francia e altri attori chiave che hanno mediato l’accordo devono ora intensificare i propri sforzi per evitare che il Libano ricada nel circolo vizioso dell’instabilità. Programmi di aiuto mirati, sia economici che militari, possono rafforzare le istituzioni statali, in particolare l’esercito, che deve affermarsi come l’unica forza armata legittima del Paese.

Parallelamente, il Libano deve ricucire i rapporti con il mondo arabo, in particolare con Paesi come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che potrebbero offrire il sostegno economico necessario per rilanciare un’economia in crisi. Le tensioni tra Hezbollah e queste nazioni hanno contribuito a isolare il Paese, limitandone la capacità di attrarre investimenti e aiuti. Una normalizzazione delle relazioni potrebbe aprire la strada a risorse vitali per la ricostruzione e il superamento dell’attuale emergenza economica.

Tuttavia, nessuno di questi obiettivi sarà raggiungibile senza un profondo cambiamento nella mentalità della classe politica libanese. Per troppo tempo, il Paese è stato ostaggio di un’élite frammentata e corrotta, incapace di rispondere alle reali esigenze della popolazione. Dopo anni di crisi economica, disordini sociali e conflitti, il popolo libanese non può più permettersi una governance priva di visione e coraggio. È il momento di accantonare interessi personali e settari per costruire uno Stato capace di servire tutti i cittadini.

Il disarmo di Hezbollah, pur essendo un obiettivo imprescindibile, non può essere concepito esclusivamente come un gesto di forza. Deve accompagnarsi a un piano concreto per integrare le risorse umane, sociali ed economiche legate al movimento nel tessuto nazionale. Reintegrare gli ex combattenti, promuovere lo sviluppo economico del sud del Paese e garantire il rispetto delle diversità politiche e religiose del Libano saranno passaggi essenziali per evitare nuove fratture.

La tregua con Israele non è solo una sospensione temporanea delle ostilità: è una pagina bianca nella storia del Libano, pronta per essere scritta. Se le autorità sapranno cogliere questa opportunità, il Paese potrà finalmente liberarsi dal peso di uno “Stato dentro lo Stato”, riconquistando la propria sovranità e un ruolo centrale nella regione. Al contrario, perdere questa occasione significherebbe condannare il Libano a un perpetuo ciclo di instabilità, con conseguenze devastanti per la sua popolazione.

Il momento di agire è ora. La tregua, pur fragile, rappresenta uno spiraglio di speranza. E il Libano, più che mai, ha bisogno di speranza e di leadership per trasformarla in realtà.

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È morto il Papa del dialogo, che ha costruito ponti tra l’Occidente cristiano e l’Islam

E oggi, mentre il mondo è ancora attraversato da guerre, odio e propaganda, quello che ci ha lasciato è una responsabilità: non lasciare che quei ponti crollino

 

In un’epoca lacerata da sospetti, paure e divisioni, Papa Francesco ha scelto una strada diversa: quella del dialogo vero. Non formale, non strategico. Un dialogo umano, coraggioso, profondo. E per chi, come me, è cresciuto nella cultura islamica, quel dialogo non è stato solo un gesto simbolico: è stato un segno di rispetto, di ascolto, di riconoscimento.

Papa Francesco ha parlato con noi, non solo di noi. E per questo, nel mondo musulmano, è stato profondamente rispettato. Stimato. Molti — credenti e non — hanno visto in lui non solo il capo della Chiesa cattolica, ma un uomo capace di farsi ponte. Di capire che non esiste vera pace se escludi l’altro. Di dire no alla paura, no alla propaganda, sì alla verità.

Quando l’immagine dell’Islam in Occidente era oscurata da pregiudizi e ridotta a caricatura di violenza, Papa Francesco ha rifiutato la logica dello “scontro di civiltà”. Ha parlato di fratellanza. Ha cercato l’incontro, anche quando farlo significava sfidare luoghi comuni e rischiare l’incomprensione. Non ha mai ceduto alla retorica della contrapposizione. Ha preferito le parole difficili della pace.

A Rabat, nel marzo 2019, davanti a migliaia di musulmani e al re Mohammed VI, Francesco ha detto qualcosa che ancora oggi mi porto dentro: «Il dialogo interreligioso è una condizione essenziale per la pace nel mondo». Parole semplici, ma vere. Quel giorno non ha parlato soltanto ai musulmani, ha parlato con tutta l’umanità. Ha voluto ricordare che il dialogo tra le fedi non è una scelta diplomatica, ma una necessità per costruire la pace, per riconoscere l’altro, per imparare a convivere senza paura. Ha mostrato che incontrarsi non significa rinunciare alla propria identità, ma renderla più forte attraverso il rispetto reciproco.

Pochi mesi prima, negli Emirati Arabi Uniti, aveva firmato con il Grande Imam di al-Azhar il “Documento sulla fratellanza umana”. Un testo che rifiuta la violenza e afferma che la fede – ogni fede – deve essere forza di riconciliazione, non di separazione. È stato un gesto che ha fatto storia.

Il viaggio in Iraq, paese martoriato da decenni di guerre e divisioni, è stato un altro atto di coraggio. L’incontro con il Grande Ayatollah Ali al-Sistani ha mostrato al mondo che anche le ferite più profonde si possono curare solo partendo dal rispetto. La presenza del Papa tra i musulmani sciiti è stata un segno potente di vicinanza e solidarietà.

Nel 2024 è andato in Indonesia, il Paese musulmano più popoloso del pianeta. Anche lì ha scelto di incontrare, ascoltare, dialogare. Alla Moschea Istiqlal, a Jakarta, ha parlato non solo come capo della Chiesa cattolica, ma come uomo consapevole che senza il contributo del mondo islamico non può esistere una pace vera.

Già nel 2014, in Turchia, aveva pregato nella Moschea Blu, a fianco dei leader musulmani. Era un gesto semplice, ma per molti inatteso. Un gesto che diceva: “Siamo diversi, ma non nemici. Possiamo pregare vicini, senza tradire la nostra fede”.

Papa Francesco ha fatto qualcosa che molti leader, religiosi e non, evitano: ha costruito ponti. Con pazienza, con umiltà, con tenacia. E quei ponti oggi sono la sua eredità più preziosa.

Per noi di cultura musulmana, il suo dialogo è stato un invito sincero a camminare insieme. Non per somigliarci, ma per capirci. Per rispettarci. Perché il dialogo autentico non cancella le differenze, le attraversa con dignità e coraggio.

Oggi che se ne va, sentiamo il peso di una voce che mancherà. Una voce limpida, libera, che ha saputo difendere la dignità di ogni essere umano. Papa Francesco non ha mai cercato scorciatoie: ha parlato a tutti, con tutti, soprattutto quando era difficile. Per questo la sua figura resterà viva, anche fuori dalla Chiesa. Anche tra noi.

E oggi, mentre il mondo è ancora attraversato da guerre, odio e propaganda, quello che ci ha lasciato è una responsabilità: non lasciare che quei ponti crollino.

Perché, in fondo, il dialogo è l’unica strada che resta quando tutto il resto ha fallito.

Rahmatullahi ‘alayh. Che la misericordia di Dio sia su di lui.

Rainews (21 aprile 2025)

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La laurea di İmamoğlu e la maschera caduta di Erdogan: che cosa sta succedendo in Turchia

L’arresto del sindaco di Istanbul con un cavillo burocratico non è solo un caso giudiziario. È uno spartiacque. Non sappiamo se tornerà libero, se riuscirà davvero a candidarsi, se vincerà. Ma il tentativo di cancellarlo dalla scena ha già fallito

In Turchia, anche una laurea può diventare un’arma politica. Non una laurea falsa, ma una vera, conseguita anni fa, che improvvisamente viene “annullata” dall’università. È quanto accaduto a Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul e figura di punta dell’opposizione: il giorno prima del suo arresto, l’Università di Istanbul ha deciso che il suo titolo di studio non era più valido. Tempismo perfetto, se si considera che una laurea è requisito obbligatorio per candidarsi alla presidenza della Repubblica.

Come dire: se non riusciamo a batterlo alle urne, possiamo sempre eliminarlo con un cavillo burocratico. Ma non è bastato. Il giorno successivo, İmamoğlu è stato arrestato con accuse di corruzione, riciclaggio e legami con il PKK, l’organizzazione curda classificata come terrorista dal governo. Il tutto a pochi giorni dalle elezioni municipali e in un momento in cui il suo nome circolava sempre più spesso come possibile candidato alle presidenziali del 2028. Per Erdoğan, İmamoğlu è un problema. Ed è risaputo: quando la democrazia inizia a fare troppa confusione, l’islam politico preferisce il silenzio delle aule giudiziarie.

Erdoğan ha costruito il suo potere proprio così: vestendo i panni del leader perseguitato, imprigionato per aver recitato versi religiosi in pubblico, per poi tornare trionfalmente alla guida di un partito “moderato” e compatibile con l’Occidente. L’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, è nato come forza riformista, promettendo una Turchia moderna, democratica, prospera. Nei primi anni ha mantenuto le promesse: boom economico, infrastrutture ovunque, consenso popolare alle stelle. Sembrava quasi che la democrazia islamica potesse esistere davvero.

Poi, lentamente ma inesorabilmente, la maschera è caduta. Ogni vittoria è diventata una scusa per concentrare più potere, ogni critica un tradimento. Dopo il tentato colpo di Stato del 2016, Erdoğan ha trovato il pretesto perfetto per trasformare la Repubblica in un sistema presidenziale iper-centralizzato, epurando giudici, giornalisti, insegnanti, militari, persino medici se necessario. Chiunque non giuri fedeltà viene sospettato di cospirazione. A quel punto, non serve più neanche perdere tempo con le elezioni: basta invalidare una laurea, fabbricare un’accusa, e il problema si risolve.

İmamoğlu però non è un oppositore qualunque. È il sindaco della città più importante del paese, la stessa da cui Erdoğan aveva iniziato la sua ascesa politica. E proprio a Istanbul ha subito una delle sue più clamorose sconfitte: le elezioni del 2019, vinte da İmamoğlu, furono annullate per “irregolarità”. Ma al secondo turno l’opposizione trionfò con un margine ancora più ampio. Un’umiliazione. Peggio ancora, İmamoğlu non è né estremista né incendiario. È moderato, concreto, popolare. Troppo per essere tollerato in un sistema che accetta l’opposizione solo se è folkloristica o innocua.

Il suo arresto arriva in un contesto in cui l’AKP sta perdendo terreno nelle grandi città. Istanbul, Ankara, Smirne, Bursa: lì il partito di governo non riesce più a parlare alla gente. Il modello economico che aveva sedotto milioni di cittadini si è sgonfiato, schiacciato da inflazione galoppante, disoccupazione e una lira in caduta libera. I giovani non hanno futuro, le famiglie non arrivano a fine mese, e la religione non basta più a riempire i frigoriferi.

Così, mentre il potere si irrigidisce, la società turca si muove. Non con una rivoluzione, ma con una lenta e ostinata resistenza. Sono i giovani, le donne, le nuove classi urbane a guidare questo cambiamento. Quelli che non si riconoscono più né nel nazionalismo esasperato, né nell’islam militante, né nella retorica del “noi contro il mondo”. Quelli che vogliono solo vivere in un paese normale, dove un sindaco non finisce in prigione per un diploma, e dove un presidente non decide chi può o non può candidarsi.

La repressione ha fatto il suo corso. Ma ha anche prodotto l’effetto opposto: ha reso visibile, tangibile, la paura del potere. Perché se davvero İmamoğlu fosse innocuo, non ci sarebbe bisogno di cancellarlo così. E invece lo si colpisce in anticipo, si chiude il gioco prima che cominci. Si grida alla legalità, mentre si calpestano le regole.

È il paradosso dell’islam politico: nato per rompere il monopolio dei militari e dare voce alla religione nella sfera pubblica, è diventato esso stesso un sistema chiuso, autoreferenziale, incapace di convivere con l’alternanza. Non appena la democrazia smette di essere utile, diventa una minaccia. E la si soffoca. Ma la democrazia, quella vera, è testarda. E in Turchia oggi si sta manifestando là dove fa più male al potere: nei quartieri, nelle piazze, nei volti di chi resiste.

L’arresto di İmamoğlu non è solo un caso giudiziario. È uno spartiacque. Non sappiamo se tornerà libero, se riuscirà davvero a candidarsi, se vincerà. Ma il tentativo di cancellarlo dalla scena ha già fallito. Perché oggi milioni di turchi, anche quelli che non lo votano, hanno capito una cosa: chi ha paura del voto non ha più legittimità. E chi ha bisogno di cancellare un diploma per fermare un avversario ha già perso.

Pubblicato su Rainews

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Dominique de Villepin: l’Europa tra sovranità e sottomissione

Dall’iconico discorso all’ONU nel 2003 contro la guerra in Iraq fino alla sua visione di un’Europa indipendente e protagonista del nuovo ordine globale, Dominique de Villepin continua a essere una delle voci più lucide e autorevoli del dibattito internazionale.

In questa intervista, l’ex primo ministro francese ci parla dei rischi della vassallizzazione dell’Europa, della necessità di una politica di sovranità industriale, tecnologica e culturale, e del ruolo che il nostro continente deve giocare in un mondo sempre più dominato dalla logica della potenza.

Una conversazione che attraversa la storia, la geopolitica e il futuro dell’Europa, tra sfide globali e il dovere di restare fedeli ai nostri valori.

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Marocco, Islam