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Quale islam?

L’origine del jihadismo risale agli anni Venti, epoca di visioni totalitarie non solo nel mondo islamico. Per varie ragioni storiche esplode veramente negli anni Duemila e si alimenta delle forze che lo vogliono contrastare.

Dei quattro califfi che succedettero al profeta Maometto, tre furono uccisi. La lotta per il potere che l’Islam conobbe ai suoi inizi è molto lontana dall’immagine idilliaca che alcuni musulmani, soprattutto i più ortodossi, conservano della loro religione. L’ideologia jihadista per esempio, si fonda sulla possibilità di tornare indietro nel tempo, fermandolo all’“epoca dorata” che comprende la vita del profeta e dei suoi compagni.

L’idealizzazione del passato è la dottrina principale di una visione del mondo incapace di assimilare, rifiutandoli, i cambiamenti della realtà moderna nelle società islamiche. È la sintesi, in un certo modo, della frustrazione vissuta da un mondo arabo incapace di stare al passo con le trasformazioni globali, rimanendo quindi al margine della storia. Quello che la stampa occidentale, soprattutto quella italiana, considera un pericolo, non è altro che un problema, serio certamente, che bisogna affrontare con lucidità.

Il jihadismo e la sua violenza spesso ci impediscono di riconoscere i veri pericoli di cui bisognerebbe, invece, essere coscienti. Per focalizzare il pericolo reale, probabilmente, occorre con urgenza mettere tutta l’ideologia jihadista, che non è altro che un’estensione dell’islam politico, all’interno del suo contesto storico e sociale.

Tutto inizia con i Fratelli musulmani che nascono come associazione segreta nel 1928, in Egitto, pochi anni dopo la caduta dell’impero Ottomano. Gli inglesi occupavano il Paese e la presenza occidentale era vissuta come l’imposizione di valori stranieri che miravano alla distruzione dell’islam.

In campo internazionale: siamo nel periodo storico in cui il fascismo e il nazismo iniziano ad avere seguaci ovunque. La concezione nazionalista di questi due movimenti ha influenzato certamente la visione ideologica dei Fratelli; ma con una differenza molto rilevante: il nazionalismo, per loro, non è solo una proiezione territoriale: è soprattutto un’appartenenza religiosa.

Finalmente, il conflitto arabo-israeliano. Nel 1935 i Fratelli entrano in contatto con Amin al-Husseini, il Gran Mufti di Gerusalemme, e partecipano alla rivolta araba in Palestina nel 1936. Nel 1945, Said Ramadan crea un braccio armato del movimento che ha l’obiettivo di combattere il movimento sionista. I Fratelli Musulmani, non a caso, partecipano attivamente alla guerra arabo-israeliana del 1948.

L’organizzazione, considerata da molti osservatori un movimento populista, non ha mai smesso di usare il suo motto, che sintetizza tutta la sua ideologia: “Dio è il nostro obiettivo, il Profeta è il nostro capo, il Corano è la nostra legge, il jihad è la nostra via, morire nella via di Dio è la nostra suprema speranza”.

Più chiaro di così…

Anche se questo movimento islamista fu fondato da Hassan al-Banna (1906-1949), si può affermare che l’ideologo per eccellenza dei Fratelli sia Sayyid Qutb (1906-1966). La sua opera è, in generale, un vero “manifesto” dell’islam politico. Qutb sostiene che l’Islam sia in crisi. I milioni di persone che si dicono musulmani di fatto non capiscono bene la loro religione. Semplicemente: non sono dei veri musulmani. Bisogna, allora, ritornare ai valori originari, quelli veri. Tale ritorno necessita, per guidare le masse, di una élite che giochi lo stesso ruolo dei compagni del Profeta agli albori dell’islam. Questa élite è stata chiamata da Qutb, in più di un libro, annawâte assalba (letteralmente: “nocciolo duro”). Quindi l’obiettivo è quello di ri-islamizzare la società perché l’islam è la soluzione per affrontare tutti i problemi politici, economici e sociali. Un discorso semplice e chiaro che va dritto al cuore di una società che si sente vittima “di un complotto internazionale sionista”. La logica del complotto è, infatti, parte integrante della visione ideologica di Qutb.

I commenti che fa al Corano e soprattutto l’interpretazione della sura 57 (al-Hadid) e 112 (al-Iklhas), fanno sì che Sayyid Qutb sia considerato il padre dell’apostasia (al-Takfir). Qutb giustifica così l’uso della violenza e del terrorismo contro i non-musulmani e gli apostati, nel tentativo di portare il regno di Dio. Non è casuale allora trovare nomi come Osama Bin Laden, Ayman Al-Zawahiri e Abdullah Azzam, tra coloro che hanno messo in pratica questi princìpi, con la creazione di organizzazioni terroristiche orientate a un piano d’azione globale.

Il jihadismo, come lo conosciamo oggi, non è altro che il frutto di un pensiero totalitario che usa la religione per nascondere i propri obiettivi politici e la lotta per la conquista del potere. Un pensiero che considera la modernità – tutta la modernità – come un pericolo. Perché è vista esclusivamente come frutto dell’evoluzione della cultura occidentale, concepita come antagonista alla religione islamica. Un pensiero che trova un amplissimo supporto ideologico nella letteratura della “fratellanza musulmana”.

Questa ideologia trova terreno fertile nella realtà dei paesi islamici, anche perché l’Occidente non riesce a trovare un “rimedio” diverso da quello militare. La cultura dominante nei paesi musulmani vuole che religione e governo siano tutt’uno.  Un fatto che “semplifica la vita” a chi vuole usare la fede per arrivare al potere. Trasformare le rivolte della “primavera araba” in rivoluzioni islamiche, per esempio, è stato agevolato anche dall’ambiguità delle forze politiche laiche, chiamate a proporre un progetto politico scevro da qualsiasi connotazione religiosa. Non potevano né possono farlo senza essere visti come la quinta colonna dell’Occidente nemico.

Quando “Le Monde” in un editoriale (11-07-2013) afferma che “l’islamismo non è un progetto di governo” dimentica che nella zona ci sono due paesi, che anche se con grandi differenze, sono governati da questa ideologia: Iran e Turchia.

Da un lato la Turchia, paese costituzionalmente democratico e laico, che fa parte della maggioranza sunnita; dall’altro l’Iran, paladino dello sciismo e stato teocratico per eccellenza. Due paesi così diversi, con divergenze politiche mai nascoste, avrebbero lo stesso riferimento ideologico?

Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi), al governo di Ankara dal 2002, nato nel solco della tradizione dell’Islam politico, l’ha moderata per volgersi verso una “democrazia conservatrice”. Per questo non mancano quelli che affermano che l’AKP avrebbe un’agenda “nascosta”, coincidente con quella, dichiarata, dei Fratelli Musulmani.

Il fondatore del partito e attuale presidente dello Stato, Tayyeb Rejeb Erdogan, fu imprigionato nel 1998 dopo essere stato giudicato colpevole di incitamento all’odio religioso per aver declamato pubblicamente i versi del poeta Ziya Gökalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati…”. Da quando è arrivato al potere, dopo aver smussato alcune asprezze del suo discorso, non avrebbe fatto altro, secondo alcuni, che cercare di minare la laicità dello stato.

Nel caso dell’Iran sembra difficile a prima vista qualsiasi tipo di relazione tra i Fratelli Musulmani e la Repubblica Islamica Iraniana. In effetti, la Fratellanza trova la sua fonte teologica nel radicalismo sunnita, mentre l’Iran è il paese sciita per eccellenza. Invece la connessione c’è e la troviamo proprio nella rivoluzione Khomeiniana.

Michael Prazan, autore del documentario “Fratelli Musulmani: ultima ideologia totalitaria”, spiega che nonostante le differenze teologiche e religiose bisogna essere consapevoli del fatto che, da un punto di vista ideologico, ci sono pochissime differenze tra la rivoluzione islamica iraniana e la fraternità.

Nel 1954 il famoso dottore di religione Navaf Safavi (1924-1955)] si recò al Cairo su invito di Sayyid Qutb. Safavi aveva letto tutti i suoi libri e ne condivideva le idee, anche quella di reislamizzare la società. Alla fine del viaggio Safavi decise di cambiare il nome del suo movimento da Fedayeen dell’Iran a al-Muslimeen Ikhuan (i Fratelli Musulmani). Safavi è stato quello che introdusse al pensiero della fratellanza il leader della rivoluzione iraniana, Ayatollah Khomeini. Quest’ultimo citava spesso Sayyid Qutb nei suoi discorsi.

Un dato indicativo potrebbe essere la traduzione di due dei volumi più importanti di Qutb in persiano dall’attuale leader supremo della rivoluzione iraniana, Ayatollah Khamenei. Questi due volumi sono stati ampiamente diffusi in Iran e considerati fino a oggi tra i libri islamici più letti. Non è casuale dunque che le idee di Sayyid Qutb si trovino nei principi fondamentali della Repubblica Islamica Iraniana.

Il viso pragmatico e, se vogliamo “moderato”, dell’islam politico, non può nascondere che il jihadismo moderno nasce dallo stesso embrione. Al-Qaeda, l’Isis, Boko Haram e tutti i movimenti violenti che fanno riferimento alla religione islamica non sono altro che una sfumatura di un’ideologia che guadagna terreno ogni giorno. Se non c’è una visione globale per capire la radice del problema, tutti gli sforzi militari – se non sono accompagnati da un progetto culturalmentevalido che evidenzi la complessità della situazione mediorientale, le difficoltà e i conflitti reali – non saranno sufficienti per combattere un cancro che sta divorando per il momento gran parte del mondo arabo islamico. Per il momento.

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وهم القوة

 هسبريس .زهير الوسيني

 

وهم القوة
كاريكاتير: عماد السنوني

 

الإسلام السياسي، في زيه المغربي وهو الذي يهمني هنا أساسًا، يمتلك القدرة الكبيرة على تبرير كل شيء. الإيمان بإيديولوجيا مليئة بالقناعات بدلًا من تبني رؤية استراتيجية بعيدة المدى، أصبح يشكل خطرًا حقيقيًا يهدد مستقبل بلادنا إذا لم يتحل زعماء هذا التيار بكثير من التروي والحكمة.

الغرض من هذه التوطئة هو تسليط الضوء على الهجوم الذي نفذته إيران ضد إسرائيل صباح يوم الأحد الماضي، والذي لقي ردود فعل واسعة بين العديد من المتابعين في المغرب. فقد اعتبره الكثيرون، خاصة من أتباع التيار الإسلامي، ردًا بطوليًا على التصرفات الإسرائيلية، سواء تلك التي قامت بها حكومة الاحتلال في غزة خلال الستة أشهر الماضية أو الهجوم الأخير الذي نفذته على القنصلية الإيرانية في دمشق.

الردود الانفعالية التي ظهرت في العديد من التعليقات التي أعقبت الهجوم الإيراني تؤكد مرة أخرى أن الشارع العربي، ومن ضمنه جزء كبير من الشارع المغربي، مازال يسيطر عليه تفكير يفتقر إلى المنطق الذي يمكّنه من فهم العالم المعقد الذي نعيش فيه. تكرار النكسات ربما أفقد العقل العربي القدرة على الاستيعاب، وبالتالي القدرة على بناء رؤية مستقبلية تساعده على تحقيق تحول نوعي ينأى به عن الفوضى التي تهدد وجوده ككيان اجتماعي، بعد أن تبين، ومنذ زمن طويل، غيابه ككيان سياسي فعّال.

لكي نفهم جيدًا ما حصل ليل السبت وصبيحة الأحد الماضيين، يجب العودة للرد الذي نفذته إيران في حدث مماثل قبل أربع سنوات، عندما قتلت الولايات المتحدة قائد فيلق القدس، قاسم سليماني. كانت إيران بحاجة إلى رد فعل رمزي للحفاظ على ماء وجهها، فطلبت الإذن للقيام بذلك. سمحت الولايات المتحدة لإيران بمهاجمة قاعدتها الجوية عين الأسد، مع التأكيد على أن لا أحد سيصاب بأذى. تم إطلاق خمسة عشر صاروخًا على القاعدة، مما تسبب في أضرار طفيفة وبدون خسائر في الأرواح، الأمر الذي علق عليه أحد الظرفاء بشكل ساخر بأنه يجب ترشيح إيران لجائزة نوبل للسلام لنجاحها في إطلاق 15 صاروخًا دون قتل أحد.

الهجوم الأخير على إسرائيل يدخل في هذا الباب ويجب قراءته داخل هذا السياق. رمزية الرد أهم بالنسبة لطهران من نتائجه. فالمسألة هي موجهة أساسًا لرأي عام داخلي في حاجة ماسة لدغدغة عواطفه الجامحة حيث يختلط الكبرياء القومي بنزعة شوفينية تساهم في تكريس سيطرة من بيدهم السلطة. أسلوب معروف تعتمده كل الأنظمة الضعيفة التي تحتاج إلى إبراز عضلاتها الهشة.

كما أن هذا الرد يفيد في تكريس وهم القوة في أذهان المنتمين إلى التيار الإسلامي، وإيران ضمنهم، الذين يحتاجون لأي عملية عسكرية مهما كانت ضحالتها للحديث عن انتصارات يرونها هم لوحدهم فقط.

الأدهى هو أن هذا الهجوم لم يستفد منه فعليًا سوى شخص واحد: نتنياهو، رئيس الحكومة الإسرائيلية المتطرفة. الرجل كان قد وصل لعزلة عالمية تامة نتيجة سياسته الهوجاء في غزة، فإذا بهجمة الألعاب النارية الإيرانية تبعث فيه روحًا جديدة ليصبح مرة أخرى محاورًا للدول العظمى وضامنًا لأمن واستقرار مواطنيه.

المشكلة مع الإخوة المقتنعين بالتيار الإسلامي في المغرب أساسًا، ومع احترامي لآرائهم بطبيعة الحال، أنهم يجدون دائمًا في مقاربتهم السياسية تبريرًا لإقناع أنفسهم بصحة نهجهم عوضًا عن تمحيصه أو البحث عن طريق آخر كفيل بإنتاج تصور مختلف لمجتمع مستعد لمواجهة التحديات الحالية والمستقبلية والتي أصبحت معقدة جدًا.

الإخوة المشارقة لم يفهموا قواعد اللعبة والنتيجة أمامكم تتجلى في دول شبحية تنعدم فيها الدولة وتسيطر عليها مليشيات في العراق وسوريا ولبنان واليمن.

نحن في المغرب، كي لا نسقط في الفخ نفسه، لنترك الأبواب مفتوحة لحوار بناء بين كل فئات المجتمع بدون تخوين للناس بسبب آرائهم، لنشرح حيثيات الواقع الجيوبوليتيكي الجديد بعد فهمه عوضًا عن تجييش المواطنين بقضايا مهما كانت عدالتها فلا يجب استعمالها للمس بالأمن الداخلي للبلاد. لنفهم العالم جيدًا قبل أن ندعو لتغييره. وشرح الواضحات من المفضحات.

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L’Iran, Israele e il puzzle di un Medio Oriente in fiamme: ma la vera minaccia è l’Islam politico

L’attacco di Teheran a Israele è stato più una risposta simbolica che effettiva. Ma per capire il nuovo scenario che si sta delineando bisogna andare oltre gli schemi consueti

Di Zouhir Louassini (Rainews)

Il giornalista libanese Jihad al-Khazen, alla vigilia degli attentati dell’11 settembre 2001, affermava: “L’Occidente non può vincere la sua battaglia contro il terrorismo se ancora non sa distinguere tra un imam e un prete.” Nel suo articolo pubblicato su Al-Hayat, al-Khazen evidenziava come l’approccio superficiale verso il mondo dell’Islam, sia da parte della stampa che dei politici occidentali, generi confusione, impedendo di affrontare i veri problemi che hanno portato al caos in vasti settori del mondo arabo e islamico.

L’attacco iraniano contro Israele, avvenuto tra sabato e domenica scorsa, ha scatenato un’altra ondata di analisi volta a interpretare la strategia di Teheran. Queste analisi vedono la realtà sciita come antagonista del mondo sunnita, spesso percepito come un alleato naturale di Israele. Gli Accordi di Abramo sono interpretati, in questo contesto, come prova di un’intesa segreta che ha evitato danni maggiori a Tel Aviv.

Considerare la rivoluzione iraniana una mera espressione dello sciismo è limitativo. È essenziale ampliare l’orizzonte per comprendere questa rivoluzione nel suo vero contesto, quello dell’islam politico. Questa prospettiva ci permette di capire il sostegno deciso e continuo che la Repubblica Islamica ha offerto per anni a Hamas, di orientamento sunnita, e ad altri movimenti emergenti dalla Fratellanza Musulmana, fondata in Egitto nel 1928. La forza di questi movimenti si è manifestata durante la primavera araba, con l’ascesa al potere di Mohammad Morsi in Egitto e di al-Nahda in Tunisia. Solo comprendendo il significato dell’islam politico possiamo interpretare l’alleanza tra il Qatar sunnita, principale finanziatore dei movimenti islamisti, la Turchia sunnita con il modello di successo rappresentato da Erdogan, e l’Iran sciita, percepito nell’immaginario arabo e islamico come un baluardo contro l'”imperialismo americano”.

Le affinità intellettuali tra l’Iran (sciita) e la fratellanza (sunnita) sono evidenti: l’ayatollah Ali Khamenei ha tradotto in persiano le opere di Sayid Qutb, un intellettuale della Fratellanza Musulmana giustiziato nelle prigioni egiziane nel 1966.

Nel 1953, il sunnita Qutb incontrava a Gerusalemme il sciita Navvâb Safavi, predicatore e fondatore dei Fedâ’iyân-e Islam, responsabili dell’uccisione di liberali e tecnocrati iraniani tra gli anni 1940 e 1960. Come sottolineava il tunisino Rached Ghannouchi, questo movimento è visto come l’erede dei Fratelli Musulmani in Iran.

Numerosi sono gli esempi che dimostrano le affinità politiche evidenti tra la rivoluzione iraniana e i Fratelli Musulmani. Fin dalla sua fondazione, la Repubblica Islamica è stata un modello per importanti leader dei Fratelli Musulmani, dal libanese Fathi Yakan al tunisino Rached Ghannouchi, fondatore del Movimento della Tendenza Islamica (MTI) – il futuro movimento Ennahda – e molti altri che vedono nella rivoluzione iraniana un esempio da seguire per riportare le loro società a un Islam considerato più puro.

Nel giugno del 2012, Mohamed Morsi, esponente del partito Libertà e Giustizia e legato ai Fratelli Musulmani egiziani, è stato eletto presidente della Repubblica. L’Iran, manifestando entusiasmo, ha applaudito la sua elezione. Solo due mesi dopo, Morsi ha visitato l’Iran in occasione del Vertice dei paesi non allineati. Questa visita ha rappresentato un evento storico: dal 1979, anno in cui l’Egitto firmò un trattato di pace con Israele, l’Iran aveva interrotto le relazioni diplomatiche con il Cairo. Tuttavia, dopo 33 anni di relazioni interrotte, un presidente egiziano è stato nuovamente accolto a Teheran, e non un presidente qualsiasi, ma un membro dei Fratelli Musulmani.

Questo entusiasmo spiega la condanna iraniana del rovesciamento di Morsi da parte dell’esercito egiziano, avvenuto nel luglio 2013, durante il quale l’Iran ha comunicato ufficialmente agli egiziani di non considerare i Fratelli Musulmani come un’organizzazione terroristica.

Nel febbraio del 2016, Oussama Hamdan, incaricato delle relazioni esterne per il movimento palestinese, ha visitato Teheran. Dopo una serie di incontri con i funzionari iraniani, il comunicato di Hamas è stato inequivocabile: si prospettava l’apertura di una “nuova pagina” nelle relazioni con Teheran. La questione palestinese è profondamente legata all’ideologia iraniana: nonostante le divergenze sulla crisi siriana, il sostegno dell’Iran a Hamas è rimasto costante nel tempo.

Solo considerando l’evoluzione dell’islam politico si possono comprendere appieno le mosse iraniane: l’attacco a Israele è stato più una risposta simbolica che effettiva. Questo si è verificato similmente quattro anni fa, quando gli Stati Uniti hanno ucciso il comandante della Forza Quds iraniana, Qasem Soleimani. L’Iran aveva necessità di una reazione simbolica per mantenere la propria immagine e ha chiesto di poterlo fare. Gli Stati Uniti hanno consentito all’Iran di attaccare la propria base aerea di Ayn Al-Asad, assicurando che nessuno venisse ferito. Quindici missili sono stati lanciati contro la base, causando danni minori e senza perdite di vite umane. Qualcuno ha commentato ironicamente l’attacco proponendo l’Iran per il Premio Nobel per la Pace per essere riuscito a lanciare 15 missili senza uccidere nessuno.

È evidente che l’islam politico trae nutrimento da queste risposte simboliche per espandere il proprio seguito. Basta osservare i social media nel mondo arabo per notare l’eco positiva che rafforza l’immagine degli iraniani come ultimo baluardo contro “l’aggressione israeliana ai fratelli palestinesi di Gaza” e come l’unico paese islamico in lotta contro “il grande Satana”, come vengono chiamati gli Stati Uniti a Teheran.

I sondaggi dimostrano che l’ideologia della fratellanza sta guadagnando terreno ovunque. Secondo uno studio del Pew Research Center, una maggioranza schiacciante di musulmani intervistati in Indonesia (91%), Libano (58%), Pakistan (69%), Nigeria (82%), Egitto (85%) e Giordania (76%) desidera un maggiore peso dell’Islam nelle questioni politiche dei loro rispettivi paesi; la stessa tendenza si osserva in Turchia (38%). E’ una ricerca pubblicata nel 2010. Oggi sicuramente i numeri saranno assolutamente più importanti a favore del discorso islamista. Questo è il vero pericolo che si sta avvicinando. I paesi arabi che hanno scommesso sulla pace con Israele sono coscienti dell’uso iraniano e dell’islam politico della causa palestinese. Questi paesi mantengono, contro le proprie opinioni pubbliche, rapporti con Israele con la speranza di risolvere la questione in un modo soddisfacente che passa obbligatoriamente per la nascita di uno Stato Palestinese. Netanyahu e suo governo devono capire questa esigenza. L’Iran – e da anni –  mira a destabilizzare i paesi arabi con l’aiuto della sua quinta colonna formata da un islam politico che per arrivare ai suoi obiettivi non si ferma davanti a niente. La sconfitta politica o militare non significa in nessun modo la fine di una ideologia, quella dell’islam politico, dove c’è poco islam e molta politica.

Chi desidera analizzare la situazione attuale in Medio Oriente dovrebbe prendere in mano una mappa e osservare attentamente gli sviluppi recenti nella regione. In Iraq, lo Stato è praticamente assente, sostituito dalla milizia sciita al-Hashd al-Shaabi. In Siria, lo Stato è ridotto all’ombra di se stesso, con Bashar al-Assad, sempre più grato per il supporto iraniano e disposto ad accettare una crescente influenza di Teheran. In Libano, lo Stato è evanescente, dominato dal partito sciita Hezbollah, che segue le direttive di Teheran. Nello Yemen, la situazione è simile: non esiste più un governo centrale, ma solo le milizie sciite degli Houthi, anch’esse sotto l’influenza di Teheran. Se l’Occidente e Israele non hanno ancora compreso la portata di questi cambiamenti, allora la frase di Jihad al-Khazen, scritta 23 anni fa, rimane sorprendentemente attuale.

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Nella guerra tra Israele e Hamas il manicheismo non potrà mai condurre alla pace

Per avvicinarsi ad un esito pacifico è necessario riconoscere che gli attori attuali – sia nella leadership israeliana che in quella palestinese – sono incapaci di offrire una reale speranza di riconciliazione

Molte persone hanno la tendenza di vedere i conflitti in termini di una distinzione netta tra bene e male dove le parti coinvolte tendono a rappresentare se stesse come il bene che combatte contro il male rappresentato dal nemico.

Questa interpretazione enfatizza la semplificazione e la polarizzazione delle complessità e delle sfumature presenti in ogni guerra, riducendole a una lotta tra “noi” e “loro”, bene contro male, senza riconoscere che spesso entrambe le parti possono avere ragioni legittime, responsabilità e colpe.

La notizia proveniente dal Cairo, che rivela l’incapacità di Hamas e Israele di raggiungere un accordo per una tregua in vista del mese sacro del Ramadan, suscita preoccupazioni significative.

L’annuncio del Presidente Biden sulla costruzione di un porto temporaneo per facilitare l’invio di aiuti ai palestinesi aggiunge ulteriori motivi di inquietudine. Questa decisione sembra indicare che, per l’amministrazione americana, le possibilità di una soluzione pacifica stanno diminuendo, privilegiando invece interventi umanitari diretti, come l’invio di aiuti aerei o, in questo caso, la realizzazione di una struttura portuale provvisoria per assistere i civili palestinesi. Queste misure evidenziano le difficoltà incontrate dagli Stati Uniti, Egitto e Qatar nel mediare efficacemente tra Israele e Hamas per raggiungere una tregua che possa alleviare le sofferenze dei civili.

Nonostante l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Jack Lew, abbia affermato che le negoziazioni sono ancora in corso e che le differenze tra le parti stanno diminuendo, appare evidente che la possibilità di una pace duratura si sta allontanando, lasciando spazio a dinamiche di potere che richiedono un’analisi attenta.

Israele cerca di negoziare da una posizione di forza, puntando a una vittoria decisiva su Hamas. Al contrario, Hamas cerca di guadagnare terreno sul fronte mediatico, sfruttando la propria posizione in uno scontro militarmente asimmetrico.

Il conflitto è complesso e richiede un’analisi dettagliata. Entrambe le parti sembrano scommettere sul tempo, credendo che questo giochi a loro favore. L’aggiunta di una dimensione ideologica e religiosa al conflitto complica ulteriormente la ricerca di una soluzione equa che possa soddisfare sia israeliani che palestinesi.

Per avanzare verso la pace, è necessario riconoscere che gli attori attuali, sia nella leadership israeliana – con Netanyahu e i suoi alleati della destra religiosa e estremista – sia in quella palestinese, rappresentata da Hamas con il suo approccio terrorista, sono incapaci di offrire una reale speranza di riconciliazione.

Ci troviamo di fronte a una situazione tanto disperata che è imperativo parlare con franchezza, specialmente per coloro che osservano il conflitto da lontano e possono basarsi sui fatti. È evidente che la violenza e la morte non possono costituire una soluzione.

È necessario superare la visione manichea che domina i media, con quelli occidentali spesso favorevoli a Israele e quelli arabi inclini a sostenere Hamas. Bisogna riconoscere le vittime innocenti, sia israeliane che palestinesi, come esseri umani che stanno pagando il prezzo più alto per un conflitto protratto, nel quale le leadership di entrambe le parti hanno mostrato una totale incapacità di superare una visione riduttiva legata all’appartenenza a una specifica tribù o comunità. Riconoscere l’umanità dell’altro è un passo fondamentale verso il progresso in un conflitto che si è trascinato per troppo tempo.

Questo approccio dovrebbe rappresentare solo l’inizio per arrivare a una soluzione politica pragmatica, in cui la comunità internazionale, con gli Stati Uniti in prima linea, intervenga per fermare l’offensiva militare israeliana e per disarmare Hamas, garantendo sicurezza a tutte le parti coinvolte. È necessario abbandonare le promesse divine a favore di compromessi terreni, che possano porre fine all’insensatezza della guerra e della violenza.

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Marocco, Islam