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Il successo di chi parla chiaro.

L’Osservatore Romano Settimanale (16/11/2017)
Per chi soffre di pessimismo cronico suggerisco una cura: ascoltare le parole dell’ex presidente uruguayano José Mujica. Molti suoi video, disponibili in rete, sono in grado di riconciliarci con il mondo della politica. A dire il vero, Mujica non fa altro che esprimersi con parole di senso comune e di semplice civiltà. Ma in un momento storico difficile come il nostro, un ex capo di stato che spieghi le vere sfide del mondo con parole tanto chiare e dirette può essere un rimedio per chi perde spesso fiducia nella lucidità umana.
Nel suo video più famoso parla di come sprechiamo il tempo: «Abbiamo inventato una montagna di consumi superflui. Viviamo comprando e buttando. Quello che stiamo buttando realmente è il tempo. Quando compriamo qualcosa non la stiamo pagando con il danaro ma con il nostro tempo. L’unica cosa che non si può comprare è la vita. La vita si consuma ed è da miserabili consumare la vita perdendo la libertà». Parole semplici che hanno conquistato il cuore di tanti.
In un’intervista concessa alla televisione privata spagnola La Sexta dopo aver lasciato il potere nel 2015, Mujica insiste sulla necessità politica dell’universalismo con parole disarmanti: «I poveri dell’Africa non sono un problema dell’Africa. Sono un problema di tutta l’umanità. Lo stesso si può dire della contaminazione del mare, anche se mi rendo conto delle nostre barriere culturali e dei limiti degli stati nazionali. Buttiamo una marea di soldi in armi per ucciderci».
Mujica critica in questa intervista la mancanza di una leadership mondiale più lungimirante, capace di superare gli interessi politici immediati. Nello stesso tempo sottolinea il ruolo di Papa Francesco «che parla come noi, che usa il nostro linguaggio» e aggiunge: «Le sue dichiarazioni sono rivoluzionarie». E al giornalista che chiede se il Pontefice «crede in quello che dice o è solo una operazione mediatica per migliorare l’immagine della Chiesa» Mujica risponde con nettezza: «Credo che lui voglia il cambiamento e che lo faccia in buona fede».
La fiducia di Mujica in Francesco trova conferma nel mondo islamico: a fine ottobre molti giornali di lingua araba hanno pubblicato le critiche del Papa sulla carenza di libertà religiosa in Medio oriente. Simili parole avrebbero potuto essere criticate e anche censurate. E invece no: sono diventate un invito all’autocritica, un vero miracolo. Nessuno in ambito islamico, escludendo i radicali e i soliti fanatici, mette in dubbio la buona fede del Pontefice. Le sue parole sono ascoltate con attenzione, e questo è un fatto. La porta aperta al dialogo, tratto caratteristico di Papa Francesco, ha lasciato tanto spazio alla mutua fiducia. C’è tanto cammino da fare ancora in questa direzione, certo, ma i risultati si vedono già.
Che forza straordinaria ha la credibilità! Nelle ultime settimane i giornali arabi hanno pubblicato numerosi articoli che invitano i musulmani ad ascoltare bene e a capire ancor meglio le parole di Francesco. E il giornalista saudita Abdel Azizi Md Qassem sottolinea che «questo Papa è un’occasione d’oro per il dialogo. Bisogna costruire con lui la pace nel mondo». Qassem si spinge oltre: incita il proprio paese a invitare il Pontefice a Riad. Chi conosce la storia e la situazione dell’Arabia Saudita sa che — se mai l’idea si realizzasse — sarebbe davvero un miracolo.
«Chi non ringrazia gli uomini non ringrazia Dio»: così l’egiziano Ahmad Nur Eddine si rivolge su «Ahram» al Papa. I musulmani devono ringraziare Francesco per quanto sta facendo per la pace è il senso dell’articolo che, in rete, è accompagnato da commenti in generale positivi. L’approccio rivoluzionario del Pontefice al mondo islamico sta finalmente dando risultati. Nessun uomo di Chiesa è mai riuscito a penetrare così efficacemente nel tessuto sociale musulmano. Una vera lezione per chi non crede nel potere del dialogo.
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Chi ha paura della pace?

La parola pace in Medio Oriente è stata talmente usata, manipolata e svuotata che oggi sembra quasi impronunciabile. Nonostante decenni di negoziati falliti, guerre senza tregua e cicli infiniti di violenza, resta l’unica via possibile. Ma chi la ostacola? Chi ha davvero paura della pace?
È questa la domanda al centro del nuovo libro di Zouhir Louassini, giornalista e scrittore, che scava nei nodi più dolorosi del conflitto israelo-palestinese. Il volume non indulge in retorica: parte da fatti concreti, come il massacro del 7 ottobre 2023, quando Hamas ha colpito brutalmente civili innocenti, tra i quali anche israeliani impegnati nel dialogo con i palestinesi. Un atto di violenza che ha avuto un unico obiettivo: distruggere ogni possibilità di convivenza.
Ma l’autore non si ferma a denunciare la barbarie di Hamas. Con la stessa lucidità mette in luce le responsabilità del governo Netanyahu e della destra israeliana, che da anni alimentano un clima di paura, colonizzazione e vendetta. Una leadership che ha usato la retorica della sicurezza per rafforzarsi politicamente, mentre la prospettiva di una pace reale si allontanava sempre di più.
Louassini mette in parallelo queste dinamiche con l’uso distorto delle parole: leader che parlano di “pace” mentre alimentano la guerra, promesse che si trasformano in imposizioni, un linguaggio politico che ricorda le distopie di Orwell, dove i significati vengono rovesciati.
Chi ha paura della pace? è un testo giornalistico ma anche una riflessione universale: mostra come la pace faccia paura a chi vive di conflitto, a chi trae forza e consenso dall’odio. E invita i lettori a chiedersi se la guerra sia davvero inevitabile, o se esista ancora spazio per immaginare scenari pragmatici di convivenza.
Non offre illusioni, ma pone la domanda più scomoda e necessaria: la pace è davvero un’utopia, o è la nostra unica possibilità di futuro?
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Partita a scacchi su un ring di pugilato: tra Israele e Iran il nuovo round di una spirale infinita

Gaza, Hezbollah, Siria, Iran: ogni fronte è inserito in una logica coerente, volta a smantellare le reti di minaccia alla sicurezza israeliana
Nel ring infuocato del Medio Oriente, il conflitto tra Israele e Iran somiglia sempre più a un ibrido tra una partita di scacchi e un incontro di pugilato. Israele gioca con freddezza strategica: colpisce con precisione chirurgica obiettivi militari, basi e infrastrutture sensibili. Ogni mossa è calcolata, ogni attacco ha un valore operativo ma anche simbolico.
L’Iran, invece, sembra un pugile stordito. Reagisce con colpi confusi, spesso imprecisi, più guidato dall’impulso che da un piano. I droni lanciati in massa, i razzi sparati senza un bersaglio definito, le minacce ripetute ma inefficaci: tutto parla di frustrazione più che di forza.
Ma il vero squilibrio non è solo militare. È soprattutto geopolitico. Teheran si ritrova sempre più isolata. I suoi alleati storici sono in difficoltà: Hezbollah è logorato in Libano da attacchi continui e da una crisi economica devastante; gli Houthi in Yemen sono sotto tiro diretto degli Stati Uniti; Hamas, dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, è intrappolato nella guerra brutale di Gaza. La “mezzaluna sciita”, un tempo simbolo dell’influenza regionale iraniana, si è incrinata sotto il peso della risposta israeliana e dell’isolamento diplomatico.
Anche sul piano internazionale, l’Iran non trova più appoggi solidi. La Russia, pur legata da interessi militari e strategici, è assorbita dalla guerra in Ucraina e non ha alcuna intenzione di aprire un nuovo fronte. La Cina mantiene una distanza prudente: intrattiene rapporti economici con Teheran, ma non intende compromettere la sua immagine globale per una potenza sempre più ingombrante. Mosca e Pechino giocano su più tavoli, ma oggi scelgono la cautela. Nessuno è disposto a esporsi per un Iran sempre più isolato.
Israele, al contrario, agisce con la consapevolezza di avere il vento a favore. Gli Stati Uniti garantiscono copertura diplomatica, supporto tecnologico e una forte capacità di deterrenza. Le potenze occidentali, con sfumature diverse, condividono la percezione dell’Iran come minaccia alla stabilità regionale. Anche molti paesi arabi, pur evitando dichiarazioni ufficiali, vedono con favore il contenimento dell’espansionismo iraniano. Non si può parlare di legittimità internazionale – l’ONU non ha mai approvato formalmente le azioni israeliane – ma è chiaro che Tel Aviv opera dentro un contesto di ampio consenso politico, seppur non dichiarato.
Soprattutto, Israele agisce secondo una visione. La risposta all’attacco del 7 ottobre non è stata solo militare: è parte di una strategia a lungo termine per ridisegnare gli equilibri regionali. Gaza, Hezbollah, Siria, Iran: ogni fronte è inserito in una logica coerente, volta a smantellare le reti di minaccia alla sicurezza israeliana. È una dottrina fondata su azione preventiva, superiorità tecnologica e iniziativa diplomatica.
Ma tutto questo solleva una domanda cruciale: quanto può durare questa spirale? Fino a quando la sicurezza israeliana potrà basarsi su guerre preventive, attacchi anticipati, operazioni giustificate da minacce reali o anche solo percepite? Perché anche la semplice sensazione di una minaccia, per Israele, si traduce quasi sempre in un’azione militare. È una strategia che ha prodotto risultati tattici, ma ha anche cronicizzato il conflitto. Ogni guerra genera la successiva.
Dal 1948, anno della nascita dello Stato di Israele, il Medio Oriente non ha mai conosciuto una pace duratura. Solo tregue provvisorie, pause tra una crisi e l’altra. Il paradosso è tutto qui: per difendersi, Israele è costretto ad attaccare. Ma ogni attacco riaccende il fuoco, rafforza il nemico, alimenta nuove tensioni.
Forse è il momento di affiancare alla forza una visione politica diversa. Perché la sicurezza, quella vera, nasce anche da una giustizia riconoscibile. E giustizia, in questa regione, significa accettare finalmente la creazione di uno Stato palestinese indipendente, con interlocutori legittimi e affidabili — non certo Hamas. Un processo difficile, certo, ma che potrebbe finalmente dare senso a un equilibrio fondato non solo sulla deterrenza, ma anche sulla legittimità e sul rispetto reciproco.
Finché la pace resterà un’idea astratta e non un progetto concreto, ovvero un “compromesso” ragionevole fra tutti gli Stati della regione, il Medio Oriente continuerà a giocare a scacchi con i pugni. E ogni vittoria, per quanto brillante, sarà solo il preludio a un nuovo round.
Pubblicato il 15/6/2025 su Rainews
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Tangeri, 1890. Intrigo, potere e resistenza: La strategia del pesce nano, il primo romanzo di Zouhir Louassini
Una storia avvincente ispirata a fatti reali che riporta alla luce una pagina dimenticata della storia marocchina, tra spionaggio, tensioni internazionali e dignità ferita.
È disponibile su Amazon La strategia del pesce nano, il primo romanzo dello scrittore e giornalista marocchino Zouhir Louassini. Ambientato nella Tangeri del 1890, il libro trascina il lettore in un’indagine che va oltre il mistero iniziale – l’assassinio di un cittadino italiano – per esplorare gli intricati rapporti di forza tra il Marocco e le grandi potenze coloniali.
Tangeri, all’epoca, era una città di frontiera e d’intrigo, abitata da consoli stranieri, spie, mercanti e diplomatici che operavano sotto la protezione di un sistema consolare arrogante e impunito. Louassini costruisce, con eleganza narrativa e rigore storico, un giallo politico che illumina i meccanismi opachi dell’epoca, le tensioni diplomatiche e le strategie sottili adottate da chi – pur privo di potere militare – cercava di sopravvivere e difendere la propria sovranità.
Il titolo del romanzo, La strategia del pesce nano, diventa emblema di questa resistenza silenziosa: quella di chi, pur piccolo e fragile, riesce a muoversi con astuzia nel mare agitato degli imperi coloniali.
Con uno stile limpido e cinematografico, il romanzo restituisce una Tangeri affascinante e contraddittoria, sospesa tra tradizione e modernità, tra dominio straniero e orgoglio marocchino. Louassini non si limita a raccontare un fatto di cronaca: invita il lettore a riflettere sul presente, sulle relazioni di forza internazionali, e sulla sottile linea tra giustizia e impunità.