Articoli
Grido strozzato

di Zouhir Louassini. L’Osservatore Romano (settimanale). 14-12-2017
«Tre giganti entrarono nella stanza, io ero seduta sul bordo del letto. Uno disse all’altro: Inizi tu o inizio io? Lì ho conosciuto la vera paura. Che cosa significa: inizio io o inizi tu?». Così, con una voce femminile rotta dall’emozione, comincia Siria, il grido strozzato, lo sconvolgente documentario di Manon Loizeau, trasmesso in Francia il 12 dicembre. Un vero pugno nello stomaco, lungo 75 minuti.
Sopravvissute all’esperienza traumatizzante della violenza più bruta, alcune donne raccontano alla regista francese che cosa significa essere usate come arma di guerra. In una società conservatrice e tradizionalista, come quella musulmana, una donna stuprata è la prima colpevole di ciò che subisce. Gli autori di quelle violenze erano pienamente consapevoli del significato dei loro atti: tutte, infatti, raccontano di essere state rifiutate dalla propria famiglia. Ripudiate le donne sposate. Abbandonate, con i loro figli, le madri.
Tra lacrime e singhiozzi, una giovane siriana racconta la sua vita e i suoi sogni: «Studiavo. Mi impegnavo tanto all’università per diventare qualcuno. Avevo grandi progetti». Tutto andava nel verso giusto fino al maledetto giorno in cui finì in prigione. Insultata, picchiata, torturata, una sera fu trasferita dalla sua cella all’ufficio del comandante. Lì fu costretta ad assistere allo stupro della sua amica, Alwa. E dopo è toccato a lei. Ma Alwa non sopravvisse: liberata dal carcere, fu uccisa da suo padre per difendere «l’onore della famiglia».
Chi usa le donne come arma sa che lo stupro è un atto non solo rivolto contro la donna e la sua identità, ma è anche uno strumento utilizzato deliberatamente per spezzare la sua famiglia, per troncarne i legami con il gruppo sociale: per abbattere ogni forma di resistenza. Una delle sei donne che hanno testimoniato davanti all’obiettivo era un tenente dell’esercito. Rimane nell’ombra, non mostra il viso, ma le sue parole squillano come trombe nel deserto: «Quando un uomo è sospettato di essersi unito ai ribelli, sua moglie, le sue figlie, sua madre vengono arrestate, violentate. I torturatori registrano tutto e poi gli inviano i filmati dello stupro per distruggerlo psicologicamente e moralmente». Lo stupro sistematico è stato infatti usato per annichilire.
«Quello che ho perso non lo posso recuperare», constata una donna, «la mia immagine, almeno come la percepisco ora, è sporca. Non abbiamo ucciso nessuno. Ma quello che loro ci hanno fatto è peggio della morte». L’ingiustizia per la donna è doppia: lo stupro viola la persona; la società la respinge. «Se ti capita, devi morire e basta. È successo a me, ma non sono morta. Cosa posso fare?» dichiara con grande amarezza una delle intervistate.
Vincitore della ventunesima edizione del Primed, premio mediterraneo per documentari e reportage che si svolge a Marsiglia, il documentario di Loizeau spiega come il corpo della donna, in Siria come in tante altre guerre, sia usato come campo di battaglia. Ci fa ascoltare la voce di donne finora immerse nella vergogna e nel silenzio. Alcune parlano col viso coperto ma tante hanno deciso di manifestare la loro identità, senza più nascondersi.
Fuggita in Turchia, una giovane madre siede accanto ai suoi quattro bambini. Si rivolge al pubblico occidentale e soprattutto alle donne europee. Chiede di non limitarsi all’indignazione. Ci implora di fare qualcosa per fermare questa tragedia, perché sono ancora molte le donne rinchiuse nelle prigioni. Chiede che la sua, la loro terribile sofferenza serva a salvare chi è ancora dietro le sbarre, alla mercé dei torturatori. Una forma di generosità, di dignità e d’onore che manca a tutti quelli che hanno deciso di condannarle al ruolo di vittime della più feroce barbarie.
Articoli
Chi ha paura della pace?

La parola pace in Medio Oriente è stata talmente usata, manipolata e svuotata che oggi sembra quasi impronunciabile. Nonostante decenni di negoziati falliti, guerre senza tregua e cicli infiniti di violenza, resta l’unica via possibile. Ma chi la ostacola? Chi ha davvero paura della pace?
È questa la domanda al centro del nuovo libro di Zouhir Louassini, giornalista e scrittore, che scava nei nodi più dolorosi del conflitto israelo-palestinese. Il volume non indulge in retorica: parte da fatti concreti, come il massacro del 7 ottobre 2023, quando Hamas ha colpito brutalmente civili innocenti, tra i quali anche israeliani impegnati nel dialogo con i palestinesi. Un atto di violenza che ha avuto un unico obiettivo: distruggere ogni possibilità di convivenza.
Ma l’autore non si ferma a denunciare la barbarie di Hamas. Con la stessa lucidità mette in luce le responsabilità del governo Netanyahu e della destra israeliana, che da anni alimentano un clima di paura, colonizzazione e vendetta. Una leadership che ha usato la retorica della sicurezza per rafforzarsi politicamente, mentre la prospettiva di una pace reale si allontanava sempre di più.
Louassini mette in parallelo queste dinamiche con l’uso distorto delle parole: leader che parlano di “pace” mentre alimentano la guerra, promesse che si trasformano in imposizioni, un linguaggio politico che ricorda le distopie di Orwell, dove i significati vengono rovesciati.
Chi ha paura della pace? è un testo giornalistico ma anche una riflessione universale: mostra come la pace faccia paura a chi vive di conflitto, a chi trae forza e consenso dall’odio. E invita i lettori a chiedersi se la guerra sia davvero inevitabile, o se esista ancora spazio per immaginare scenari pragmatici di convivenza.
Non offre illusioni, ma pone la domanda più scomoda e necessaria: la pace è davvero un’utopia, o è la nostra unica possibilità di futuro?
Articoli
Partita a scacchi su un ring di pugilato: tra Israele e Iran il nuovo round di una spirale infinita

Gaza, Hezbollah, Siria, Iran: ogni fronte è inserito in una logica coerente, volta a smantellare le reti di minaccia alla sicurezza israeliana
Nel ring infuocato del Medio Oriente, il conflitto tra Israele e Iran somiglia sempre più a un ibrido tra una partita di scacchi e un incontro di pugilato. Israele gioca con freddezza strategica: colpisce con precisione chirurgica obiettivi militari, basi e infrastrutture sensibili. Ogni mossa è calcolata, ogni attacco ha un valore operativo ma anche simbolico.
L’Iran, invece, sembra un pugile stordito. Reagisce con colpi confusi, spesso imprecisi, più guidato dall’impulso che da un piano. I droni lanciati in massa, i razzi sparati senza un bersaglio definito, le minacce ripetute ma inefficaci: tutto parla di frustrazione più che di forza.
Ma il vero squilibrio non è solo militare. È soprattutto geopolitico. Teheran si ritrova sempre più isolata. I suoi alleati storici sono in difficoltà: Hezbollah è logorato in Libano da attacchi continui e da una crisi economica devastante; gli Houthi in Yemen sono sotto tiro diretto degli Stati Uniti; Hamas, dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, è intrappolato nella guerra brutale di Gaza. La “mezzaluna sciita”, un tempo simbolo dell’influenza regionale iraniana, si è incrinata sotto il peso della risposta israeliana e dell’isolamento diplomatico.
Anche sul piano internazionale, l’Iran non trova più appoggi solidi. La Russia, pur legata da interessi militari e strategici, è assorbita dalla guerra in Ucraina e non ha alcuna intenzione di aprire un nuovo fronte. La Cina mantiene una distanza prudente: intrattiene rapporti economici con Teheran, ma non intende compromettere la sua immagine globale per una potenza sempre più ingombrante. Mosca e Pechino giocano su più tavoli, ma oggi scelgono la cautela. Nessuno è disposto a esporsi per un Iran sempre più isolato.
Israele, al contrario, agisce con la consapevolezza di avere il vento a favore. Gli Stati Uniti garantiscono copertura diplomatica, supporto tecnologico e una forte capacità di deterrenza. Le potenze occidentali, con sfumature diverse, condividono la percezione dell’Iran come minaccia alla stabilità regionale. Anche molti paesi arabi, pur evitando dichiarazioni ufficiali, vedono con favore il contenimento dell’espansionismo iraniano. Non si può parlare di legittimità internazionale – l’ONU non ha mai approvato formalmente le azioni israeliane – ma è chiaro che Tel Aviv opera dentro un contesto di ampio consenso politico, seppur non dichiarato.
Soprattutto, Israele agisce secondo una visione. La risposta all’attacco del 7 ottobre non è stata solo militare: è parte di una strategia a lungo termine per ridisegnare gli equilibri regionali. Gaza, Hezbollah, Siria, Iran: ogni fronte è inserito in una logica coerente, volta a smantellare le reti di minaccia alla sicurezza israeliana. È una dottrina fondata su azione preventiva, superiorità tecnologica e iniziativa diplomatica.
Ma tutto questo solleva una domanda cruciale: quanto può durare questa spirale? Fino a quando la sicurezza israeliana potrà basarsi su guerre preventive, attacchi anticipati, operazioni giustificate da minacce reali o anche solo percepite? Perché anche la semplice sensazione di una minaccia, per Israele, si traduce quasi sempre in un’azione militare. È una strategia che ha prodotto risultati tattici, ma ha anche cronicizzato il conflitto. Ogni guerra genera la successiva.
Dal 1948, anno della nascita dello Stato di Israele, il Medio Oriente non ha mai conosciuto una pace duratura. Solo tregue provvisorie, pause tra una crisi e l’altra. Il paradosso è tutto qui: per difendersi, Israele è costretto ad attaccare. Ma ogni attacco riaccende il fuoco, rafforza il nemico, alimenta nuove tensioni.
Forse è il momento di affiancare alla forza una visione politica diversa. Perché la sicurezza, quella vera, nasce anche da una giustizia riconoscibile. E giustizia, in questa regione, significa accettare finalmente la creazione di uno Stato palestinese indipendente, con interlocutori legittimi e affidabili — non certo Hamas. Un processo difficile, certo, ma che potrebbe finalmente dare senso a un equilibrio fondato non solo sulla deterrenza, ma anche sulla legittimità e sul rispetto reciproco.
Finché la pace resterà un’idea astratta e non un progetto concreto, ovvero un “compromesso” ragionevole fra tutti gli Stati della regione, il Medio Oriente continuerà a giocare a scacchi con i pugni. E ogni vittoria, per quanto brillante, sarà solo il preludio a un nuovo round.
Pubblicato il 15/6/2025 su Rainews
Articoli
Tangeri, 1890. Intrigo, potere e resistenza: La strategia del pesce nano, il primo romanzo di Zouhir Louassini
Una storia avvincente ispirata a fatti reali che riporta alla luce una pagina dimenticata della storia marocchina, tra spionaggio, tensioni internazionali e dignità ferita.
È disponibile su Amazon La strategia del pesce nano, il primo romanzo dello scrittore e giornalista marocchino Zouhir Louassini. Ambientato nella Tangeri del 1890, il libro trascina il lettore in un’indagine che va oltre il mistero iniziale – l’assassinio di un cittadino italiano – per esplorare gli intricati rapporti di forza tra il Marocco e le grandi potenze coloniali.
Tangeri, all’epoca, era una città di frontiera e d’intrigo, abitata da consoli stranieri, spie, mercanti e diplomatici che operavano sotto la protezione di un sistema consolare arrogante e impunito. Louassini costruisce, con eleganza narrativa e rigore storico, un giallo politico che illumina i meccanismi opachi dell’epoca, le tensioni diplomatiche e le strategie sottili adottate da chi – pur privo di potere militare – cercava di sopravvivere e difendere la propria sovranità.
Il titolo del romanzo, La strategia del pesce nano, diventa emblema di questa resistenza silenziosa: quella di chi, pur piccolo e fragile, riesce a muoversi con astuzia nel mare agitato degli imperi coloniali.
Con uno stile limpido e cinematografico, il romanzo restituisce una Tangeri affascinante e contraddittoria, sospesa tra tradizione e modernità, tra dominio straniero e orgoglio marocchino. Louassini non si limita a raccontare un fatto di cronaca: invita il lettore a riflettere sul presente, sulle relazioni di forza internazionali, e sulla sottile linea tra giustizia e impunità.