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L’Iran, Israele e il puzzle di un Medio Oriente in fiamme: ma la vera minaccia è l’Islam politico

L’attacco di Teheran a Israele è stato più una risposta simbolica che effettiva. Ma per capire il nuovo scenario che si sta delineando bisogna andare oltre gli schemi consueti

Di Zouhir Louassini (Rainews)

Il giornalista libanese Jihad al-Khazen, alla vigilia degli attentati dell’11 settembre 2001, affermava: “L’Occidente non può vincere la sua battaglia contro il terrorismo se ancora non sa distinguere tra un imam e un prete.” Nel suo articolo pubblicato su Al-Hayat, al-Khazen evidenziava come l’approccio superficiale verso il mondo dell’Islam, sia da parte della stampa che dei politici occidentali, generi confusione, impedendo di affrontare i veri problemi che hanno portato al caos in vasti settori del mondo arabo e islamico.

L’attacco iraniano contro Israele, avvenuto tra sabato e domenica scorsa, ha scatenato un’altra ondata di analisi volta a interpretare la strategia di Teheran. Queste analisi vedono la realtà sciita come antagonista del mondo sunnita, spesso percepito come un alleato naturale di Israele. Gli Accordi di Abramo sono interpretati, in questo contesto, come prova di un’intesa segreta che ha evitato danni maggiori a Tel Aviv.

Considerare la rivoluzione iraniana una mera espressione dello sciismo è limitativo. È essenziale ampliare l’orizzonte per comprendere questa rivoluzione nel suo vero contesto, quello dell’islam politico. Questa prospettiva ci permette di capire il sostegno deciso e continuo che la Repubblica Islamica ha offerto per anni a Hamas, di orientamento sunnita, e ad altri movimenti emergenti dalla Fratellanza Musulmana, fondata in Egitto nel 1928. La forza di questi movimenti si è manifestata durante la primavera araba, con l’ascesa al potere di Mohammad Morsi in Egitto e di al-Nahda in Tunisia. Solo comprendendo il significato dell’islam politico possiamo interpretare l’alleanza tra il Qatar sunnita, principale finanziatore dei movimenti islamisti, la Turchia sunnita con il modello di successo rappresentato da Erdogan, e l’Iran sciita, percepito nell’immaginario arabo e islamico come un baluardo contro l'”imperialismo americano”.

Le affinità intellettuali tra l’Iran (sciita) e la fratellanza (sunnita) sono evidenti: l’ayatollah Ali Khamenei ha tradotto in persiano le opere di Sayid Qutb, un intellettuale della Fratellanza Musulmana giustiziato nelle prigioni egiziane nel 1966.

Nel 1953, il sunnita Qutb incontrava a Gerusalemme il sciita Navvâb Safavi, predicatore e fondatore dei Fedâ’iyân-e Islam, responsabili dell’uccisione di liberali e tecnocrati iraniani tra gli anni 1940 e 1960. Come sottolineava il tunisino Rached Ghannouchi, questo movimento è visto come l’erede dei Fratelli Musulmani in Iran.

Numerosi sono gli esempi che dimostrano le affinità politiche evidenti tra la rivoluzione iraniana e i Fratelli Musulmani. Fin dalla sua fondazione, la Repubblica Islamica è stata un modello per importanti leader dei Fratelli Musulmani, dal libanese Fathi Yakan al tunisino Rached Ghannouchi, fondatore del Movimento della Tendenza Islamica (MTI) – il futuro movimento Ennahda – e molti altri che vedono nella rivoluzione iraniana un esempio da seguire per riportare le loro società a un Islam considerato più puro.

Nel giugno del 2012, Mohamed Morsi, esponente del partito Libertà e Giustizia e legato ai Fratelli Musulmani egiziani, è stato eletto presidente della Repubblica. L’Iran, manifestando entusiasmo, ha applaudito la sua elezione. Solo due mesi dopo, Morsi ha visitato l’Iran in occasione del Vertice dei paesi non allineati. Questa visita ha rappresentato un evento storico: dal 1979, anno in cui l’Egitto firmò un trattato di pace con Israele, l’Iran aveva interrotto le relazioni diplomatiche con il Cairo. Tuttavia, dopo 33 anni di relazioni interrotte, un presidente egiziano è stato nuovamente accolto a Teheran, e non un presidente qualsiasi, ma un membro dei Fratelli Musulmani.

Questo entusiasmo spiega la condanna iraniana del rovesciamento di Morsi da parte dell’esercito egiziano, avvenuto nel luglio 2013, durante il quale l’Iran ha comunicato ufficialmente agli egiziani di non considerare i Fratelli Musulmani come un’organizzazione terroristica.

Nel febbraio del 2016, Oussama Hamdan, incaricato delle relazioni esterne per il movimento palestinese, ha visitato Teheran. Dopo una serie di incontri con i funzionari iraniani, il comunicato di Hamas è stato inequivocabile: si prospettava l’apertura di una “nuova pagina” nelle relazioni con Teheran. La questione palestinese è profondamente legata all’ideologia iraniana: nonostante le divergenze sulla crisi siriana, il sostegno dell’Iran a Hamas è rimasto costante nel tempo.

Solo considerando l’evoluzione dell’islam politico si possono comprendere appieno le mosse iraniane: l’attacco a Israele è stato più una risposta simbolica che effettiva. Questo si è verificato similmente quattro anni fa, quando gli Stati Uniti hanno ucciso il comandante della Forza Quds iraniana, Qasem Soleimani. L’Iran aveva necessità di una reazione simbolica per mantenere la propria immagine e ha chiesto di poterlo fare. Gli Stati Uniti hanno consentito all’Iran di attaccare la propria base aerea di Ayn Al-Asad, assicurando che nessuno venisse ferito. Quindici missili sono stati lanciati contro la base, causando danni minori e senza perdite di vite umane. Qualcuno ha commentato ironicamente l’attacco proponendo l’Iran per il Premio Nobel per la Pace per essere riuscito a lanciare 15 missili senza uccidere nessuno.

È evidente che l’islam politico trae nutrimento da queste risposte simboliche per espandere il proprio seguito. Basta osservare i social media nel mondo arabo per notare l’eco positiva che rafforza l’immagine degli iraniani come ultimo baluardo contro “l’aggressione israeliana ai fratelli palestinesi di Gaza” e come l’unico paese islamico in lotta contro “il grande Satana”, come vengono chiamati gli Stati Uniti a Teheran.

I sondaggi dimostrano che l’ideologia della fratellanza sta guadagnando terreno ovunque. Secondo uno studio del Pew Research Center, una maggioranza schiacciante di musulmani intervistati in Indonesia (91%), Libano (58%), Pakistan (69%), Nigeria (82%), Egitto (85%) e Giordania (76%) desidera un maggiore peso dell’Islam nelle questioni politiche dei loro rispettivi paesi; la stessa tendenza si osserva in Turchia (38%). E’ una ricerca pubblicata nel 2010. Oggi sicuramente i numeri saranno assolutamente più importanti a favore del discorso islamista. Questo è il vero pericolo che si sta avvicinando. I paesi arabi che hanno scommesso sulla pace con Israele sono coscienti dell’uso iraniano e dell’islam politico della causa palestinese. Questi paesi mantengono, contro le proprie opinioni pubbliche, rapporti con Israele con la speranza di risolvere la questione in un modo soddisfacente che passa obbligatoriamente per la nascita di uno Stato Palestinese. Netanyahu e suo governo devono capire questa esigenza. L’Iran – e da anni –  mira a destabilizzare i paesi arabi con l’aiuto della sua quinta colonna formata da un islam politico che per arrivare ai suoi obiettivi non si ferma davanti a niente. La sconfitta politica o militare non significa in nessun modo la fine di una ideologia, quella dell’islam politico, dove c’è poco islam e molta politica.

Chi desidera analizzare la situazione attuale in Medio Oriente dovrebbe prendere in mano una mappa e osservare attentamente gli sviluppi recenti nella regione. In Iraq, lo Stato è praticamente assente, sostituito dalla milizia sciita al-Hashd al-Shaabi. In Siria, lo Stato è ridotto all’ombra di se stesso, con Bashar al-Assad, sempre più grato per il supporto iraniano e disposto ad accettare una crescente influenza di Teheran. In Libano, lo Stato è evanescente, dominato dal partito sciita Hezbollah, che segue le direttive di Teheran. Nello Yemen, la situazione è simile: non esiste più un governo centrale, ma solo le milizie sciite degli Houthi, anch’esse sotto l’influenza di Teheran. Se l’Occidente e Israele non hanno ancora compreso la portata di questi cambiamenti, allora la frase di Jihad al-Khazen, scritta 23 anni fa, rimane sorprendentemente attuale.

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Chi ha paura della pace?

La parola pace in Medio Oriente è stata talmente usata, manipolata e svuotata che oggi sembra quasi impronunciabile. Nonostante decenni di negoziati falliti, guerre senza tregua e cicli infiniti di violenza, resta l’unica via possibile. Ma chi la ostacola? Chi ha davvero paura della pace?

È questa la domanda al centro del nuovo libro di Zouhir Louassini, giornalista e scrittore, che scava nei nodi più dolorosi del conflitto israelo-palestinese. Il volume non indulge in retorica: parte da fatti concreti, come il massacro del 7 ottobre 2023, quando Hamas ha colpito brutalmente civili innocenti, tra i quali anche israeliani impegnati nel dialogo con i palestinesi. Un atto di violenza che ha avuto un unico obiettivo: distruggere ogni possibilità di convivenza.

Ma l’autore non si ferma a denunciare la barbarie di Hamas. Con la stessa lucidità mette in luce le responsabilità del governo Netanyahu e della destra israeliana, che da anni alimentano un clima di paura, colonizzazione e vendetta. Una leadership che ha usato la retorica della sicurezza per rafforzarsi politicamente, mentre la prospettiva di una pace reale si allontanava sempre di più.

Louassini mette in parallelo queste dinamiche con l’uso distorto delle parole: leader che parlano di “pace” mentre alimentano la guerra, promesse che si trasformano in imposizioni, un linguaggio politico che ricorda le distopie di Orwell, dove i significati vengono rovesciati.

Chi ha paura della pace? è un testo giornalistico ma anche una riflessione universale: mostra come la pace faccia paura a chi vive di conflitto, a chi trae forza e consenso dall’odio. E invita i lettori a chiedersi se la guerra sia davvero inevitabile, o se esista ancora spazio per immaginare scenari pragmatici di convivenza.

Non offre illusioni, ma pone la domanda più scomoda e necessaria: la pace è davvero un’utopia, o è la nostra unica possibilità di futuro?

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Partita a scacchi su un ring di pugilato: tra Israele e Iran il nuovo round di una spirale infinita

Gaza, Hezbollah, Siria, Iran: ogni fronte è inserito in una logica coerente, volta a smantellare le reti di minaccia alla sicurezza israeliana

 

Nel ring infuocato del Medio Oriente, il conflitto tra Israele e Iran somiglia sempre più a un ibrido tra una partita di scacchi e un incontro di pugilato. Israele gioca con freddezza strategica: colpisce con precisione chirurgica obiettivi militari, basi e infrastrutture sensibili. Ogni mossa è calcolata, ogni attacco ha un valore operativo ma anche simbolico.

L’Iran, invece, sembra un pugile stordito. Reagisce con colpi confusi, spesso imprecisi, più guidato dall’impulso che da un piano. I droni lanciati in massa, i razzi sparati senza un bersaglio definito, le minacce ripetute ma inefficaci: tutto parla di frustrazione più che di forza.

Ma il vero squilibrio non è solo militare. È soprattutto geopolitico. Teheran si ritrova sempre più isolata. I suoi alleati storici sono in difficoltà: Hezbollah è logorato in Libano da attacchi continui e da una crisi economica devastante; gli Houthi in Yemen sono sotto tiro diretto degli Stati Uniti; Hamas, dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, è intrappolato nella guerra brutale di Gaza. La “mezzaluna sciita”, un tempo simbolo dell’influenza regionale iraniana, si è incrinata sotto il peso della risposta israeliana e dell’isolamento diplomatico.

Anche sul piano internazionale, l’Iran non trova più appoggi solidi. La Russia, pur legata da interessi militari e strategici, è assorbita dalla guerra in Ucraina e non ha alcuna intenzione di aprire un nuovo fronte. La Cina mantiene una distanza prudente: intrattiene rapporti economici con Teheran, ma non intende compromettere la sua immagine globale per una potenza sempre più ingombrante. Mosca e Pechino giocano su più tavoli, ma oggi scelgono la cautela. Nessuno è disposto a esporsi per un Iran sempre più isolato.

Israele, al contrario, agisce con la consapevolezza di avere il vento a favore. Gli Stati Uniti garantiscono copertura diplomatica, supporto tecnologico e una forte capacità di deterrenza. Le potenze occidentali, con sfumature diverse, condividono la percezione dell’Iran come minaccia alla stabilità regionale. Anche molti paesi arabi, pur evitando dichiarazioni ufficiali, vedono con favore il contenimento dell’espansionismo iraniano. Non si può parlare di legittimità internazionale – l’ONU non ha mai approvato formalmente le azioni israeliane – ma è chiaro che Tel Aviv opera dentro un contesto di ampio consenso politico, seppur non dichiarato.

Soprattutto, Israele agisce secondo una visione. La risposta all’attacco del 7 ottobre non è stata solo militare: è parte di una strategia a lungo termine per ridisegnare gli equilibri regionali. Gaza, Hezbollah, Siria, Iran: ogni fronte è inserito in una logica coerente, volta a smantellare le reti di minaccia alla sicurezza israeliana. È una dottrina fondata su azione preventiva, superiorità tecnologica e iniziativa diplomatica.

Ma tutto questo solleva una domanda cruciale: quanto può durare questa spirale? Fino a quando la sicurezza israeliana potrà basarsi su guerre preventive, attacchi anticipati, operazioni giustificate da minacce reali o anche solo percepite? Perché anche la semplice sensazione di una minaccia, per Israele, si traduce quasi sempre in un’azione militare. È una strategia che ha prodotto risultati tattici, ma ha anche cronicizzato il conflitto. Ogni guerra genera la successiva.

Dal 1948, anno della nascita dello Stato di Israele, il Medio Oriente non ha mai conosciuto una pace duratura. Solo tregue provvisorie, pause tra una crisi e l’altra. Il paradosso è tutto qui: per difendersi, Israele è costretto ad attaccare. Ma ogni attacco riaccende il fuoco, rafforza il nemico, alimenta nuove tensioni.

Forse è il momento di affiancare alla forza una visione politica diversa. Perché la sicurezza, quella vera, nasce anche da una giustizia riconoscibile. E giustizia, in questa regione, significa accettare finalmente la creazione di uno Stato palestinese indipendente, con interlocutori legittimi e affidabili — non certo Hamas. Un processo difficile, certo, ma che potrebbe finalmente dare senso a un equilibrio fondato non solo sulla deterrenza, ma anche sulla legittimità e sul rispetto reciproco.

Finché la pace resterà un’idea astratta e non un progetto concreto, ovvero un “compromesso” ragionevole fra tutti gli Stati della regione, il Medio Oriente continuerà a giocare a scacchi con i pugni. E ogni vittoria, per quanto brillante, sarà solo il preludio a un nuovo round.

Pubblicato il 15/6/2025 su Rainews

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Tangeri, 1890. Intrigo, potere e resistenza: La strategia del pesce nano, il primo romanzo di Zouhir Louassini

Una storia avvincente ispirata a fatti reali che riporta alla luce una pagina dimenticata della storia marocchina, tra spionaggio, tensioni internazionali e dignità ferita.

È disponibile su Amazon La strategia del pesce nano, il primo romanzo dello scrittore e giornalista marocchino Zouhir Louassini. Ambientato nella Tangeri del 1890, il libro trascina il lettore in un’indagine che va oltre il mistero iniziale – l’assassinio di un cittadino italiano – per esplorare gli intricati rapporti di forza tra il Marocco e le grandi potenze coloniali.

Tangeri, all’epoca, era una città di frontiera e d’intrigo, abitata da consoli stranieri, spie, mercanti e diplomatici che operavano sotto la protezione di un sistema consolare arrogante e impunito. Louassini costruisce, con eleganza narrativa e rigore storico, un giallo politico che illumina i meccanismi opachi dell’epoca, le tensioni diplomatiche e le strategie sottili adottate da chi – pur privo di potere militare – cercava di sopravvivere e difendere la propria sovranità.

Il titolo del romanzo, La strategia del pesce nano, diventa emblema di questa resistenza silenziosa: quella di chi, pur piccolo e fragile, riesce a muoversi con astuzia nel mare agitato degli imperi coloniali.

Con uno stile limpido e cinematografico, il romanzo restituisce una Tangeri affascinante e contraddittoria, sospesa tra tradizione e modernità, tra dominio straniero e orgoglio marocchino. Louassini non si limita a raccontare un fatto di cronaca: invita il lettore a riflettere sul presente, sulle relazioni di forza internazionali, e sulla sottile linea tra giustizia e impunità.

 

 

 

 

 

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Marocco, Islam