Molte persone hanno la tendenza di vedere i conflitti in termini di una distinzione netta tra bene e male dove le parti coinvolte tendono a rappresentare se stesse come il bene che combatte contro il male rappresentato dal nemico.
Questa interpretazione enfatizza la semplificazione e la polarizzazione delle complessità e delle sfumature presenti in ogni guerra, riducendole a una lotta tra “noi” e “loro”, bene contro male, senza riconoscere che spesso entrambe le parti possono avere ragioni legittime, responsabilità e colpe.
La notizia proveniente dal Cairo, che rivela l’incapacità di Hamas e Israele di raggiungere un accordo per una tregua in vista del mese sacro del Ramadan, suscita preoccupazioni significative.
L’annuncio del Presidente Biden sulla costruzione di un porto temporaneo per facilitare l’invio di aiuti ai palestinesi aggiunge ulteriori motivi di inquietudine. Questa decisione sembra indicare che, per l’amministrazione americana, le possibilità di una soluzione pacifica stanno diminuendo, privilegiando invece interventi umanitari diretti, come l’invio di aiuti aerei o, in questo caso, la realizzazione di una struttura portuale provvisoria per assistere i civili palestinesi. Queste misure evidenziano le difficoltà incontrate dagli Stati Uniti, Egitto e Qatar nel mediare efficacemente tra Israele e Hamas per raggiungere una tregua che possa alleviare le sofferenze dei civili.
Nonostante l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Jack Lew, abbia affermato che le negoziazioni sono ancora in corso e che le differenze tra le parti stanno diminuendo, appare evidente che la possibilità di una pace duratura si sta allontanando, lasciando spazio a dinamiche di potere che richiedono un’analisi attenta.
Israele cerca di negoziare da una posizione di forza, puntando a una vittoria decisiva su Hamas. Al contrario, Hamas cerca di guadagnare terreno sul fronte mediatico, sfruttando la propria posizione in uno scontro militarmente asimmetrico.
Il conflitto è complesso e richiede un’analisi dettagliata. Entrambe le parti sembrano scommettere sul tempo, credendo che questo giochi a loro favore. L’aggiunta di una dimensione ideologica e religiosa al conflitto complica ulteriormente la ricerca di una soluzione equa che possa soddisfare sia israeliani che palestinesi.
Per avanzare verso la pace, è necessario riconoscere che gli attori attuali, sia nella leadership israeliana – con Netanyahu e i suoi alleati della destra religiosa e estremista – sia in quella palestinese, rappresentata da Hamas con il suo approccio terrorista, sono incapaci di offrire una reale speranza di riconciliazione.
Ci troviamo di fronte a una situazione tanto disperata che è imperativo parlare con franchezza, specialmente per coloro che osservano il conflitto da lontano e possono basarsi sui fatti. È evidente che la violenza e la morte non possono costituire una soluzione.
È necessario superare la visione manichea che domina i media, con quelli occidentali spesso favorevoli a Israele e quelli arabi inclini a sostenere Hamas. Bisogna riconoscere le vittime innocenti, sia israeliane che palestinesi, come esseri umani che stanno pagando il prezzo più alto per un conflitto protratto, nel quale le leadership di entrambe le parti hanno mostrato una totale incapacità di superare una visione riduttiva legata all’appartenenza a una specifica tribù o comunità. Riconoscere l’umanità dell’altro è un passo fondamentale verso il progresso in un conflitto che si è trascinato per troppo tempo.
Questo approccio dovrebbe rappresentare solo l’inizio per arrivare a una soluzione politica pragmatica, in cui la comunità internazionale, con gli Stati Uniti in prima linea, intervenga per fermare l’offensiva militare israeliana e per disarmare Hamas, garantendo sicurezza a tutte le parti coinvolte. È necessario abbandonare le promesse divine a favore di compromessi terreni, che possano porre fine all’insensatezza della guerra e della violenza.