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L’islamista pentito

di Zouhir Louassini. L’Osservatore Romano (Settimanale)

Da un po’ di tempo nei social arabi gira una riflessione sulla differenza tra due termini, solo in apparenza sovrapponibili: il musulmano, cioè chi professa la fede islamica, e l’islamista, inteso come chi ha una percezione totalmente ideologica della medesima religione. Il musulmano crede che Dio lo protegga, l’islamista crede che sia lui a proteggere Dio. Il musulmano è preoccupato per la sua fede, l’islamista è preoccupato per la fede degli altri. Prima di prendere una decisione, il musulmano consulta il suo cuore, l’islamista consulta il partito. Il musulmano vuole essere sicuro di andare in paradiso, l’islamista vuole accertarsi che gli altri vadano all’inferno. Quando il musulmano non vuole fare una cosa, non la fa. Quando l’islamista non vuole fare una cosa, vieta agli altri di farla.

Sono antinomie colloquiali, ma fondamentali. Perché rivelano, con un po’ di sarcasmo, fino a che punto l’interpretazione di una stessa religione possa condurre a modi drasticamente diversi di vivere la vita e la fede. L’islam soffre di una lettura fondamentalista in cui la spiritualità ha poco spazio, perché il messaggio finale di questa grande religione è ridotto a un mero gioco di potere. È dunque utile e raccomandabile cercare di definire con onestà intellettuale i termini adatti a capire meglio la differenza tra chi pratica la fede in pace e chi, al contrario, mira solo a usarla come strumento o, peggio, come un’arma da brandire.

L’islamismo, movimento che unisce le correnti più radicali dell’islam, è un’ideologia che pretende la rigorosa applicazione della sharia (la legge islamica basata sui precetti del Corano) e ha come fine politico la creazione di stati islamici da essa ispirati e regolati. Nulla di spirituale è alla base di questo discorso: i testi sacri sono infatti stravolti per giustificare la concezione chiusa che gli islamisti hanno della vita e del mondo.

Torna utile, per illustrare meglio la questione, ricordare l’esempio di Farid Abdelkrim, francese di origini algerine, autore di Perché ho smesso di essere islamista, che concluse un articolo pubblicato su “Huffington Post” nel marzo 2015 affermando che «l’islamismo non è l’islam, non può e non deve essere percepito come tale».

Nel libro, uscito all’inizio del 2015, Abdelkrim aveva raccontato la sua storia: un cammino lento e faticoso che lo ha condotto a un’urticante quanto illuminante presa di coscienza.
La sua biografia colpisce il lettore perché somiglia a quella di molti giovani. Bambino francese ben inserito nel suo quartiere, si diverte a scuola, ha una vita familiare normale. Poi muore il padre e tutto cambia.

Perso il suo punto di riferimento principale, a tredici anni inizia una vita da vero delinquente. Fino a quando un amico è ucciso dalla polizia proprio davanti ai suoi occhi. Il dolore e il vuoto sentiti dopo questa tragedia sono subito riempiti da affermazioni religiose perentorie e prive di coerenza. Diventa un predicatore di successo, proponendo una lettura molto semplice, quasi elementare: l’islamofobia è la causa di tutti i mali e l’islam è il rimedio.

Brillante e ben preparato, Abdelkrim scala le gerarchie della galassia islamista fino a divenire leader di vari movimenti e organizzazioni. L’esperienza diretta, da protagonista, gli permette di dipingere un quadro equilibrato, senza rancore né compiacimento, delle autorità che organizzano l’islam in Francia. E scrive di aver compreso, poco a poco, che la logica di chi gestisce l’islam nel paese transalpino non è quella dell’amore di Dio e dei fratelli ma solo una lotta continua per conquistare il potere. Poco a poco, si rende conto delle incoerenze e dei rischi e giunge alla decisione di dimettersi dai suoi incarichi per vivere un islam più riflessivo e più intimo. Ora non cerca più di convincere gli altri ma si limita soltanto a vivere con loro.

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Chi ha paura della pace?

La parola pace in Medio Oriente è stata talmente usata, manipolata e svuotata che oggi sembra quasi impronunciabile. Nonostante decenni di negoziati falliti, guerre senza tregua e cicli infiniti di violenza, resta l’unica via possibile. Ma chi la ostacola? Chi ha davvero paura della pace?

È questa la domanda al centro del nuovo libro di Zouhir Louassini, giornalista e scrittore, che scava nei nodi più dolorosi del conflitto israelo-palestinese. Il volume non indulge in retorica: parte da fatti concreti, come il massacro del 7 ottobre 2023, quando Hamas ha colpito brutalmente civili innocenti, tra i quali anche israeliani impegnati nel dialogo con i palestinesi. Un atto di violenza che ha avuto un unico obiettivo: distruggere ogni possibilità di convivenza.

Ma l’autore non si ferma a denunciare la barbarie di Hamas. Con la stessa lucidità mette in luce le responsabilità del governo Netanyahu e della destra israeliana, che da anni alimentano un clima di paura, colonizzazione e vendetta. Una leadership che ha usato la retorica della sicurezza per rafforzarsi politicamente, mentre la prospettiva di una pace reale si allontanava sempre di più.

Louassini mette in parallelo queste dinamiche con l’uso distorto delle parole: leader che parlano di “pace” mentre alimentano la guerra, promesse che si trasformano in imposizioni, un linguaggio politico che ricorda le distopie di Orwell, dove i significati vengono rovesciati.

Chi ha paura della pace? è un testo giornalistico ma anche una riflessione universale: mostra come la pace faccia paura a chi vive di conflitto, a chi trae forza e consenso dall’odio. E invita i lettori a chiedersi se la guerra sia davvero inevitabile, o se esista ancora spazio per immaginare scenari pragmatici di convivenza.

Non offre illusioni, ma pone la domanda più scomoda e necessaria: la pace è davvero un’utopia, o è la nostra unica possibilità di futuro?

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Partita a scacchi su un ring di pugilato: tra Israele e Iran il nuovo round di una spirale infinita

Gaza, Hezbollah, Siria, Iran: ogni fronte è inserito in una logica coerente, volta a smantellare le reti di minaccia alla sicurezza israeliana

 

Nel ring infuocato del Medio Oriente, il conflitto tra Israele e Iran somiglia sempre più a un ibrido tra una partita di scacchi e un incontro di pugilato. Israele gioca con freddezza strategica: colpisce con precisione chirurgica obiettivi militari, basi e infrastrutture sensibili. Ogni mossa è calcolata, ogni attacco ha un valore operativo ma anche simbolico.

L’Iran, invece, sembra un pugile stordito. Reagisce con colpi confusi, spesso imprecisi, più guidato dall’impulso che da un piano. I droni lanciati in massa, i razzi sparati senza un bersaglio definito, le minacce ripetute ma inefficaci: tutto parla di frustrazione più che di forza.

Ma il vero squilibrio non è solo militare. È soprattutto geopolitico. Teheran si ritrova sempre più isolata. I suoi alleati storici sono in difficoltà: Hezbollah è logorato in Libano da attacchi continui e da una crisi economica devastante; gli Houthi in Yemen sono sotto tiro diretto degli Stati Uniti; Hamas, dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, è intrappolato nella guerra brutale di Gaza. La “mezzaluna sciita”, un tempo simbolo dell’influenza regionale iraniana, si è incrinata sotto il peso della risposta israeliana e dell’isolamento diplomatico.

Anche sul piano internazionale, l’Iran non trova più appoggi solidi. La Russia, pur legata da interessi militari e strategici, è assorbita dalla guerra in Ucraina e non ha alcuna intenzione di aprire un nuovo fronte. La Cina mantiene una distanza prudente: intrattiene rapporti economici con Teheran, ma non intende compromettere la sua immagine globale per una potenza sempre più ingombrante. Mosca e Pechino giocano su più tavoli, ma oggi scelgono la cautela. Nessuno è disposto a esporsi per un Iran sempre più isolato.

Israele, al contrario, agisce con la consapevolezza di avere il vento a favore. Gli Stati Uniti garantiscono copertura diplomatica, supporto tecnologico e una forte capacità di deterrenza. Le potenze occidentali, con sfumature diverse, condividono la percezione dell’Iran come minaccia alla stabilità regionale. Anche molti paesi arabi, pur evitando dichiarazioni ufficiali, vedono con favore il contenimento dell’espansionismo iraniano. Non si può parlare di legittimità internazionale – l’ONU non ha mai approvato formalmente le azioni israeliane – ma è chiaro che Tel Aviv opera dentro un contesto di ampio consenso politico, seppur non dichiarato.

Soprattutto, Israele agisce secondo una visione. La risposta all’attacco del 7 ottobre non è stata solo militare: è parte di una strategia a lungo termine per ridisegnare gli equilibri regionali. Gaza, Hezbollah, Siria, Iran: ogni fronte è inserito in una logica coerente, volta a smantellare le reti di minaccia alla sicurezza israeliana. È una dottrina fondata su azione preventiva, superiorità tecnologica e iniziativa diplomatica.

Ma tutto questo solleva una domanda cruciale: quanto può durare questa spirale? Fino a quando la sicurezza israeliana potrà basarsi su guerre preventive, attacchi anticipati, operazioni giustificate da minacce reali o anche solo percepite? Perché anche la semplice sensazione di una minaccia, per Israele, si traduce quasi sempre in un’azione militare. È una strategia che ha prodotto risultati tattici, ma ha anche cronicizzato il conflitto. Ogni guerra genera la successiva.

Dal 1948, anno della nascita dello Stato di Israele, il Medio Oriente non ha mai conosciuto una pace duratura. Solo tregue provvisorie, pause tra una crisi e l’altra. Il paradosso è tutto qui: per difendersi, Israele è costretto ad attaccare. Ma ogni attacco riaccende il fuoco, rafforza il nemico, alimenta nuove tensioni.

Forse è il momento di affiancare alla forza una visione politica diversa. Perché la sicurezza, quella vera, nasce anche da una giustizia riconoscibile. E giustizia, in questa regione, significa accettare finalmente la creazione di uno Stato palestinese indipendente, con interlocutori legittimi e affidabili — non certo Hamas. Un processo difficile, certo, ma che potrebbe finalmente dare senso a un equilibrio fondato non solo sulla deterrenza, ma anche sulla legittimità e sul rispetto reciproco.

Finché la pace resterà un’idea astratta e non un progetto concreto, ovvero un “compromesso” ragionevole fra tutti gli Stati della regione, il Medio Oriente continuerà a giocare a scacchi con i pugni. E ogni vittoria, per quanto brillante, sarà solo il preludio a un nuovo round.

Pubblicato il 15/6/2025 su Rainews

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Tangeri, 1890. Intrigo, potere e resistenza: La strategia del pesce nano, il primo romanzo di Zouhir Louassini

Una storia avvincente ispirata a fatti reali che riporta alla luce una pagina dimenticata della storia marocchina, tra spionaggio, tensioni internazionali e dignità ferita.

È disponibile su Amazon La strategia del pesce nano, il primo romanzo dello scrittore e giornalista marocchino Zouhir Louassini. Ambientato nella Tangeri del 1890, il libro trascina il lettore in un’indagine che va oltre il mistero iniziale – l’assassinio di un cittadino italiano – per esplorare gli intricati rapporti di forza tra il Marocco e le grandi potenze coloniali.

Tangeri, all’epoca, era una città di frontiera e d’intrigo, abitata da consoli stranieri, spie, mercanti e diplomatici che operavano sotto la protezione di un sistema consolare arrogante e impunito. Louassini costruisce, con eleganza narrativa e rigore storico, un giallo politico che illumina i meccanismi opachi dell’epoca, le tensioni diplomatiche e le strategie sottili adottate da chi – pur privo di potere militare – cercava di sopravvivere e difendere la propria sovranità.

Il titolo del romanzo, La strategia del pesce nano, diventa emblema di questa resistenza silenziosa: quella di chi, pur piccolo e fragile, riesce a muoversi con astuzia nel mare agitato degli imperi coloniali.

Con uno stile limpido e cinematografico, il romanzo restituisce una Tangeri affascinante e contraddittoria, sospesa tra tradizione e modernità, tra dominio straniero e orgoglio marocchino. Louassini non si limita a raccontare un fatto di cronaca: invita il lettore a riflettere sul presente, sulle relazioni di forza internazionali, e sulla sottile linea tra giustizia e impunità.

 

 

 

 

 

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Marocco, Islam